Chi cerca di realizzare il Paradiso in terra, sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile Inferno
Se siete dei fanatici di Hunger Games, o se avete contribuito al successo del fenomeno Twilight, allora, molto probabilmente, fate parte anche voi della YA Generation. Magari, però, non ne avete mai sentito parlare. YA sta per Young Adult, ed è la sigla con cui gli esperti dell’intrattenimento hanno bollato alcuni dei più grossi successi commerciali dell’ultimo decennio letterario e cinematografico. Definire l’universo YA può rivelarsi un’impresa più che complicata. Già parlare di generi e di categorie non è mai molto semplice, e il rischio di incasellare questo o quel prodotto nel riquadro sbagliato è praticamente dietro l’angolo. I confini del settore di cui stiamo parlando sono quantomai sfumati, lasciano entrare nell’enorme barattolo YA di tutto e di più, e non fai in tempo a metterci sopra il coperchio che già qualcos’altro c’è scivolato dentro. Si va dall’action al fantasy, al dramma, all’avventura, passando per l’immancabile storia d’amore: insomma, questa enigmatica sigla attraversa ogni genere possibile, senza che si riesca a capire dove collocarla. Il che, a dirla tutta, genera qualche sospetto. Potremmo essere già arrivati alla conclusione, ma scendiamo ancora un po’ più a fondo nella questione.
Tanto gli abitudinari del cinema quanto i frequentatori meno assidui, si saranno accorti che il mercato è ormai dominato da un numero in crescita costante di pellicole con protagonisti dei ragazzi alle prese con problemi più grandi di loro. Ex bambini non ancora diventati adulti. Piccoli eroi che non si riconoscono in una società ipocrita e tiranna e che sono destinati a trasformare una volta per tutte il già traballante sistema di valori su cui si regge. Insomma, racconti di formazione del nuovo millennio frequentemente in salsa post-apocalittica, destinati ad un pubblico altrettanto giovane, ma non necessariamente adolescente. Un titolo dopo l’altro, anche l’osservatore meno attento potrebbe scorgere i segnali di un’evidentissima somiglianza, quasi al limite della scopiazzatura reciproca.
Si era partiti con Harry Potter nel vicino 2001, e il mondo intero si fermò a guardare le prodezze dell’undicenne più famoso di sempre. La saga tratta dai libri di J. K. Rowling doveva avere parecchia originalità e freschezza dalla sua parte, e non soltanto per il fatto di essere stata, assai probabilmente, il capostipite della lunga discendenza che oggi viene appunto etichettata come YA, in ambito cinematografico e prima ancora in quello editoriale. Harry Potter presupponeva l’esistenza di un altro mondo che non intaccava affatto il nostro, col quale, anzi, conviveva piuttosto armoniosamente. Le immagini di un universo devastato e reinventato dalle fondamenta erano ancora lontane da venire. Eppure, già vedevamo sulle sue deboli spalle inesperte ammassarsi tutto il peso di un’umanità da salvare. Gli orfani del maghetto con la cicatrice a forma di saetta hanno dovuto attendere qualche anno prima di potersi consolare con la visione di Hunger Games, Beautiful Creatures, Divergent, The Giver, e tutto ciò che il franchise YA ha da offrire. L’idea di fondo è quella della citazione del poeta Paul Claudel riportata in principio di questa nostra dissertazione: un Inferno ammantato di apparente beatitudine, dove il tormento, sia chiaro, non è necessariamente visibile per le strade di questi impossibili mondi. È tutto interno al protagonista teenager che deve scavalcare le barriere di un futuro che qualcuno prima di lui gli ha costruito ed imposto. È il dramma di qualunque adolescente moderno che non riesce a riconoscere il proprio posto nella società. Non è difficile comprendere perché questi film abbiano una presa così forte sul target più giovane. Chiunque di noi ha provato, durante l’età più tenera, per così dire, quel senso di ribellione verso le istituzioni, le regole, la figura genitoriale o qualunque altra autorità che minacciasse, anche solo in senso lato, la nostra libertà di essere e di scegliere. Chiunque di noi ha anche sognato, almeno una volta nella vita, di essere un tantinello speciale, unico, quasi straordinario. Proprio come quei tipi lì. Metteteci poi che questi eroini ed eroucci sono un concentrato di virtù e santità col sacro compito di fare giustizia, e il gioco è fatto. Trovarsi un idolo per cui tifare diventa facile facile come allacciarsi le scarpe.
Quella della distopia, invece, è un’arguzia ancora più recente. Se i già citati Harry Potter e Twilight collocavano l’azione in una realtà ancora vicina, seppure visibile in lontananza, i loro successori hanno optato per un pianeta Terra completamente stravolto dalle guerre e dalle calamità scaturite dalla violenza e dall’egoismo umani. Il che ci permette di riflettere, quando non sono gli stessi personaggi sullo schermo a farlo, della natura dell’uomo, del libero arbitrio, dell’avvenire. In un momento storico in cui siamo costantemente bombardati dagli allarmismi sul cambiamento climatico e sulla fine del mondo, in cui da ogni parte sentiamo arrivare la preoccupazione degli effetti dell’inquinamento, della pervasività della tecnologia e di ogni nostra scellerata azione, e considerando che l’essere umano non ha mai smesso di interrogarsi sulla sua provenienza e la sua destinazione, la curiosità (e il timore) dello spettatore su ciò che sarà dopo di lui è alle stelle. Se poi ci si può dare l’aria di aver sfornato anche un prodotto serio ed impegnato, tanto meglio. Basta frullare insieme politica, filosofia e idealismi vari e la minestra è bell’e pronta, non importa quanto poi tutto avvenga semplicisticamente.
A quanto pare, non importa neanche offrire agli spettatori in sala qualcosa di nuovo. La logica del guadagno mette in secondo piano la questione della qualità. Vero è che questi film non inventano proprio nulla, avendo alle spalle il corrispettivo letterario che li ha ispirati, e sarebbe faticoso ed inutile impelagarsi nella discussione di “chi ha copiato chi” e “chi l’ha fatto per primo”. Gli autori, e gli sceneggiatori dopo, di sicuro non avevano neanche lontanamente la sensazione di dar vita ad un fenomeno. Ma il punto è, tornando alla nostra riflessione iniziale, che non si può neanche ragionevolmente parlare di “genere”. Si ha solamente l’impressione che tutta questa faccenda della Young Generation sia un’altra trovata commerciale. Una sigla come un’altra inventata a tavolino per cavalcare la moda del momento ed attirare il più giovane pubblico pagante (anche se col rischio di lasciare fuori tutti gli altri). E ad Hollywood qualcuno avrà ben pensato di trasportare la definizione anche al cinema, avendo letto il il simbolo $ stampato a caratteri cubitali sulle pagine dei romanzi di derivazione. Col risultato che, ovviamente, anche le vendite di quegli stessi romanzi subiscono un’impennata considerevole. Chissà che il colpo di genio della Young Generation non sia venuto proprio agli scrittori. Coniare un’espressione che non dice nulla sul tipo di prodotto che abbiamo di fronte ma tutto sul suo protagonista, sulla sua età, sulle sua indole e le doti fuori dal comune. Un termine che pretende di definire una categoria senza caratteri suoi propri. Tranne quello della ripetitività.
Andrea Vitale
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