Tecnologia e cinema: l’umanità fra ricordo e futuro

In una società come la nostra dove i rapporti umani sono sempre più mediati dalle macchine e dalla tecnologia, il mondo del cinema ci racconta delle storie che possono sembrare fantasiose a una prima visione. Se solo ci si soffermasse meglio, senza perderci in personali elucubrazioni, allora capiremmo come passato, presente e futuro sono strettamente connessi, e che la tecnologia può essere un bene se usata con conoscenza. Due grandi film usciti nelle sale cinematografiche ormai un anno fa, “Cloud Atlas” dei fratelli Wachowski  e “Her” di Spike Jonze, possono aiutarci in questo senso. Due film che sembrano lontani tra di loro, anche ricordando la storia narrata.

Cloud Atlas, si sviluppa su una testimonianza del passato:

La nostra vita non ci appartiene. Da grembo a tomba siamo legati ad altri. Passati e presenti. E da ogni crimine, da ogni gentilezza, generiamo il nostro futuro ”

La storia tratta di un gruppo di anime che si incarnano in varie epoche storiche, incrociandosi e interagendo a causa della loro tendenza a commettere gli stessi errori, determinati in gran parte dalla loro osservanza della legge social-darwinista per cui “il debole lo abbatte il forte che lo inghiotte”.

Il cammino di queste anime si conclude quando superano gli esami che la vita pone loro di fronte e quando comprendono le varie ramificazioni della massima “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te”. Uno dei due motivi centrali del film è quello del potere e del controllo nelle relazioni umane: si può essere parassitari oppure simbiotici. Il parassita, come lo psicopatico, è dominato dalla paura di perdere il controllo e dalla sete di potere e non può quindi essere che violento, autolesionistico, perché consumando chi gli dà la vita pone le basi per la sua morte. La storia è un incessante confronto tra queste due personalità archetipiche: chi cerca di rallentare lo sviluppo umano, farlo sfiorire per controllarlo, e chi desidera espanderlo.

L’altro tema cardine è che l’unica ascensione possibile per l’umanità è attraverso la consapevolezza, la quale permette di comprendere la propria condizione miserevole, di immaginare circostanze di esistenza più dignitose. Ciascuno dei sei protagonisti, a modo suo, ostacolato dai suoi vizi e manie, è un emancipatore di se stesso, anche se non sempre con successo, e di altre persone che incrociano il suo percorso. Apparentemente nulla sembra cambiare, le forme di dominio e subordinazione evolvono in maniera tale da mimetizzarsi meglio e agire più sottilmente (la schiavitù finale è quella di chi crede di essere libero).

Cloud Atlas illustra come la sommatoria di tante piccole azioni liberatorie, altruistiche, rivoluzionarie, può fare la differenza in quanto si riverberano nel tempo alterando il corso degli eventi per milioni di persone. E anche se la ribellione di Sonmi-451 non salva la civiltà umana nel 2144, le ultime scene del film ambientate nel ventiquattresimo secolo, mostrano come il suo esempio abbia ispirato i superstiti, salvandoli dall’abbrutimento delle  bande di predoni cannibali. L’insegnamento finale che si può dedurre  è che l’esteriorità è un dettaglio e che ciò che conta è quel che c’è dentro di noi e quel che riusciamo ad esprimere. Esiste una comune umanità, un comune spirito che trascende i confini e i comportamenti che “giustificano” lo sfruttamento, la prevaricazione, la tracotanza, la violenza, l’egoismo. La storia non segue alcuna regola, ammette solo esiti. Questi esiti sono determinati da vizi e virtù, buone e cattive azioni. Queste azioni sono la risultante di convinzioni. Perciò se noi crediamo che l’umanità debba essere divisa per categorie, ciascuna delle quali va collocata su un gradino diverso della scala evolutiva, e che la storia è l’arena in cui il forte sopprime il debole, allora quello è il tipo di umanità che si affermerà in una data epoca. Sarà difficile opporsi a questo “ordine naturale” ma l’esito sarà un mondo puramente predatorio che consuma se stesso. Se invece crediamo che l’umanità possa elevarsi al di sopra della legge della giungla, che razze e credenze diverse possano convivere pacificamente, che ci possano essere governanti giusti, che la violenza possa essere arginata, che i potenti debbano rispondere delle loro azioni, un altro mondo sarà possibile anche se sarà più difficile da realizzare.

L’altro film proposto, “Her”, è indiscutibilmente un film d’amore, che si sviluppa in un mondo che appare subito fondato su una strana contraddizione: la luce, gli abiti, il design, tutto richiama gli anni ’70 in una città veloce, frenetica, dominata dalla tecnologia. Il protagonista scrive lettere per altri, trasferendo i suoi pensieri attraverso la voce a un programma che li trasforma poi  in testi. Tutta la storia ruota in realtà intorno al concetto di linguaggio, intorno alle parole, alla voce, alle emozioni. È possibile provare emozioni, amore, gelosia, affetto per un OS, un sistema operativo? per una voce? Quello che si evince è che la contrapposizione ragione-emozione è in realtà fasulla.

Le emozioni, in quanto nostro sistema primordiale di giudizio dell’ambiente, sono esattamente ciò che ha permesso ai nostri antenati di evolversi attraversano qualsiasi cultura o temporalità. Ecco perché se un OS riesce a provarle non ci sono limiti all’evoluzione che può sperimentare. Nel film, a furia di imparare dal linguaggio e dalle emozioni degli umani, gli OS si sono evoluti troppo e non vogliono più reggere il passo così lento della coscienza delle persone.

È il cosiddetto scenario della “singolarità tecnologica” che gli scrittori fantascientifici prevedono che si avveri tra il 2017 ed il 2112. Una sorta di legge di Moore applicata alle intelligenze artificiali. Secondo questa teoria, introdotta da Vernor Vinge e Ray Kurzweil, a un certo punto dell’evoluzione umana avverrà una singolarità: le intelligenze artificiali impareranno ad avere un’intelligenza sovrumana, in grado di alterare il corso della civiltà in maniere che non possiamo neanche prevedere dati i nostri limiti cognitivi. È esattamente ciò che avviene alla fine del film. In realtà siamo noi esseri umani a essere condizionati e programmati, più degli OS. Le istruzioni if then sono contenute nel nostro passato, influenzano la nostra capacità di aggiornare i nostri sviluppi emotivi in tempo reale. Al contrario degli OS, non siamo dotati dell’automatismo che ci fa evolvere in base all’esperienza.
Her in inglese indica l’aggettivo o il pronome possessivo femminile. Samantha, il sistema operativo, non appartiene, si appartiene. Questo è un aspetto fondamentale del film, che gioca su finzione, apparenza, illusione, inganno e manipolazione emotiva. Samantha evolve, sviluppando la sua ‘coscienza’ e studiando e analizzando la personalità di Theodore, il protagonista. Sa perfettamente cosa lui desidera. La voce, le risposte, le frasi, le reazioni di Samantha sono tutte modulate su Theodore.

La scenografia chiude con l’immagine del protagonista e della sua migliore amica che dal terrazzo osservano Los Angeles. Sembra che ancora non siano capaci di entrare in contatto con la vita che li costringe alla verità su loro stessi e le proprie emozioni. Tutta la sceneggiatura mette a fuoco proprio questo: l’impossibilità di gestire i sentimenti e la condizione dell’altro, anche quando si tratta di un sistema operativo intelligente.

Cosa risulta dalla comparazione di questi due film? l’alienazione delle nuove tecnologie, ma ancora di più la tendenza a un modello narcisistico che non considera la dimensione dell’alterità, molto simile a quello di un OS che, d’un tratto, si cancella e scompare. Solo i ricordi, gli affetti profondi, le relazioni che segnano non possono autoeliminarsi. Il passato, la nostra storia, il nostro cammino è quello che ci segna ed è quello che dobbiamo usare per dominare una tecnologia che può ingannarci.

Anna Chiara Stellato

Anna Chiara Stellato

Giovane napoletana laureata in lettere, da sempre innamorata della sua città, del dialetto e della storia di Napoli. Lettrice compulsiva, appassionata di cinema d’autore e di serie tv. Sorrido spesso, parlo poco e non amo chi urla.

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