Uomo e animale: perversione o evasione?
L’uomo è manifestamente un essere pensante, qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio, e tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente.
B. Pascal
Pascal porta ai massimi livelli la tesi di Cartesio secondo cui l’uomo è il più perfetto degli animali perché detentore di intelletto. Ma il confine tra il mondo umano e quello animale è piuttosto labile. Spesso la ragione cede il passo a quella bestialità insita in ogni uomo, che guida le azioni più violente e perverse, e scindere i due mondi diviene quasi impossibile.
Nemico giurato della ragione è l’amore nelle sue molteplici sfumature: l’amore tra un uomo e una donna, tra due individui dello stesso sesso o semplicemente tra l’essere umano e l’animale. Un rapporto puro, ingenuo, ma che in certi casi può tirare fuori il lato più oscuro, malato e passionale nascosto in ciascuno di noi.
Nell’Ottocento Honoré de Balzac, nel tentativo di dipingere, all’interno della sua “Comédie Humaine”, i molteplici aspetti della società umana, scrisse Una passione nel deserto. Prendendo spunto da un racconto di cronaca, Balzac dà vita a una delle storie d’amore più dolci, romantiche e contro natura di tutta la sua opera. Il maestro del realismo si sofferma a descrivere l’assurda relazione di un soldato napoleonico con una bellissima pantera. Con lo scorrere della narrazione l’animale si trasforma agli occhi del soldato, dispersosi nel deserto, in un elegante figura femminile, un’amica fidata con cui parlare, giocare e che, inspiegabilmente, si prende cura di lui come la più dolce delle amanti:
Alla fine provò una passione per la sua pantera; perché aveva pur bisogno d’affetto.
Il racconto di Balzac apre le porte al mondo della letteratura zoofila.
La parola zoofilia deriva dal greco zôon, animale, e philia, amicizia, propensione, amore. Tralasciando le distorsioni malate e pornografiche, associate a tale termine nella società moderna, esso diviene in letteratura mezzo di indagine nei riguardi di una società che sembra non voler mutare mai.
La società del vizio, dell’alcool e della miseria, abitata da ribelli, disadattati, visionari, anticonformisti ed emarginati che, non riuscendo ad adattarsi alla società in cui vivono, prediligono l’animale all’avidità vuota e falsa dei rapporti umani, ultimo portavoce di quella purezza e ingenuità d’animo che l’uomo preferisce sacrificare a favore dei soldi, del successo e del potere. Non a caso il soldato napoleonico di Balzac, una volta rientrato in patria sano e salvo, continuerà a rimpiangere per il resto della sua vita la sua pantera.
Le origini della zoofilia possono essere rintracciate nella mitologia classica, in particolare in quella sterminata opera di Ovidio, le Metamorfosi, incentrata sulle trasformazioni uomo/Dio/animale, in tutte le sue varianti e direzioni possibili. Zoofilo per eccellenza fu Zeus, il dio dell’Olimpo che era solito assumere fattezze animali per sedurre ninfe e donne maritate e sfuggire così al controllo della vendicatrice moglie Era. Ci limitiamo a ricordare le due metamorfosi più note: quella in cigno per possedere la bella Leda e il maestoso toro bianco che sedusse la giovane Europa, dalla cui unione nacque Minosse, futuro re di Creta.
Ma il mondo della letteratura zoofila è sterminato, dall’800 a oggi diversi scrittori si sono soffermati su tale tema per indagare la doppia natura dell’essere umano – metà angelo e metà bestia.
Nella lettera di Lord Chandos (1902) Hofmannsthal evoca l’amore di Crasso per una murena addomesticata, “un pesce ottuso, muto, con l’occhio rosso”. A chi gli rinfacciava di aver pianto per la sua morte, Crasso replicava: “Ho fatto per la morte del mio pesce quel che tu non hai fatto per la morte della tua prima né della tua seconda moglie”. In Leda senza cigno (1916) di D’Annunzio, il protagonista, Moriar, scopre la deliziosa amante soccombere all’affettuoso assalto di una muta di levrieri: “oh questo!” mormora dolcemente la donna mentre riceve le leccate di un superbo esemplare. “Il lungo muso le era contro la gota … le dita nude si insinuavano nel bel manto come nella piuma molle che è sotto l’ala”. Nel 1933, la Gatta di Colette ha la meglio sulla giovane Camille. La donna si rende conto che il marito ritorna ossessivamente dai genitori solo per rivedere la sua gatta. Ingelosita, getta la rivale dalla finestra ma il felino sopravvive e il marito indignato lascia la moglie. La gatta non è un semplice animale, è l’infanzia inconsolabilmente perduta, è la casa, la madre comprensiva e discreta; ma è anche, nello stesso tempo, il simbolo lievemente inquietante dell’impossibilità di essere normali.
L’analisi del rapporto erotico uomo-animale, trova il suo massimo compimento con un autore a noi contemporaneo, Peter Hoeg, nel romanzo La donna e la scimmia. Lo scrittore danese riprende un tema già scoperchiato nel 1933 da Antonio Abruzzese nel film King Kong con un finale a sorpresa, in cui la scimmia non è più solo un animale, ma un essere imprecisabile, e fuggirà sui tetti di Londra in compagnia dell’amata, la bella e infelice moglie dello zoologo Adam. Madelene ha trent’anni e dopo un’infanzia trascorsa in una ricca e arida famiglia borghese, si trasferisce a Londra, con il marito Adam, in una sontuosissima dimora immersa in un giardino tropicale. Ma la vita della giovane donna si rivela un buio inferno fatto di rituali ossessivi che si ripetono giorno dopo giorno: il trucco, la colazione, l’attesa del marito. La solitudine che attanaglia la sua sfarzosa vita trova un unico alleato nell’alcool, che diventa l’amico fedele a cui la povera Madelene si aggrappa per sopravvivere nella sua tetra prigione dorata. Un fortuito incontro salverà la giovane dal suo oscuro destino: una mattina, nel parco della casa-giardino viene allestito un enorme padiglione che nasconde un esemplare di scimpanzé particolarmente intelligente, su cui il marito si appresta a lavorare in gran segreto per conseguire la tanta agognata fama all’interno del mondo accademico scientifico. L’incontro tra Madelene e la scimmia Erasmus avviene in una notte silenziosa. Incuriosita dal misterioso animale, la giovane si avvicina alla sua gabbia, e resta incantata da quell’essere così diverso e nello stesso tempo così simile all’uomo. Lo sguardo dell’umanoide si sofferma sugli occhi di Madelene e in quel momento qualcosa si riaccende nell’animo intorpidito della donna portandola a compiere delle azioni che cambieranno inevitabilmente la sua vita. Salverà Erasmus dalle sperimentazioni del marito e fuggirà con lui iniziando una storia d’amore che si rivelerà uno scambio di sapienza: “Si diventa adulti solo nel momento in cui si è liberi”.
Ma il senso reale del romanzo, in un crescendo culminante, viene fuori solo nella scena finale, in cui i due personaggi maschili vengono sconfitti: Adam non riuscirà a spiegare scientificamente le doti intellettive del mammifero che ha di fronte, dimostrando così i limiti della scienza e della ragione stessa; Erasmus non riuscirà a portare a termine la sua salvifica missione. Questa scimmia-uomo non è qualcosa che precede l’uomo, semmai “viene dopo di noi”, è quello che saremo. Sua missione è cambiare la mentalità corrente, lo stile di vita occidentale, il mercantile rapporto uomo-natura, al fine di salvare l’uomo da un destino distruttivo fondato sulla pretesa dell’assoluta superiorità scientifica che ha già rivelato i suoi limiti dal momento in cui Erasmus è piombato nel nostro mondo. Ma l’uomo unico detentore del verbo e dominatore incontrastato di tutte le sue forme viventi, dinanzi alla paura del diverso, non può fare altro che urlare e barricarsi in casa, costringendo gli umanoidi a ritornare nella loro terra d’origine ad aspettare il momento in cui l’essere umano diventi adulto.
Con questo romanzo Peter Hoeg coglie appieno quel lato della psiche umana che preferisce guardarsi in forma animale. Può bastare un artiglio a certificare la bestia che è in noi. Gli animali diventano, così, terreni rischiosi e affascinanti incarnazioni di una selvaticità che nascondiamo dentro di noi e con cui di tanto in tanto scendiamo a patti.
Martina Massa