Benvenuti nell’apocalisse
Ma di nuovo vivranno i tuoi morti,
risorgeranno i loro cadaveri.
Si sveglieranno ed esulteranno
quelli che giacciono nella polvere[…] [1]Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro.[2]
Se riuscite a vedere zombie anche in Isaia e in Ezechiele, vuol dire che è successo. Siete stati morsi.
Più dei licantropi, più dei vampiri, gli zombie hanno conquistato il nostro immaginario, lo dimostrano il lunghissimo elenco di film dagli anni ’60 a oggi, i fumetti e le serie televisive. Non parlo solo dei cult di Romero e della seguitissima The walking dead, ma anche di parodie, musica, film d’amore (!), filosofia (mi riferisco a David John Chalmers).
Gli zombie sono tra noi; ma come ci sono arrivati? Originariamente uno zombie non è che una vittima di riti voodoo. Nel folklore haitiano un bokor, uno stregone malvagio, sarebbe in grado di catturare parte dell’anima di una persona (petit bon ange) trasformandola praticamente in un morto vivente, schiavo e privo di volontà. Credenza, questa, rafforzata dal regime dittatoriale di François Duvalier (Papa Doc) che sfruttava a proprio vantaggio superstizioni e paure per terrorizzare e governare con pugno di ferro.
Le cose cambiano quando in giro per il mondo si comincia a sentire puzza d’apocalisse. Il 1968 non è solo l’anno hippie per eccellenza ma è soprattutto l’anno in cui gli zombie scoprono la loro vera natura di simpatici morti viventi sempre a caccia di carne fresca. Ora, non voglio insistere sul fatto che mentre i sessantottini sono morti (viventi?) gli zombie e quello che rappresentano sono più vivi che mai, quindi facciamo finta di niente e torniamo al 1968, anno in cui le sale cinematografiche vengono infettate da Night of the Living Dead (per gli italofoni La notte dei morti viventi). Il film non spicca certamente per la qualità degli attori o delle riprese, ma nel giro di poco tempo diventa un cult. Il regista, George Andrew Romero, deve sicuramente il suo successo a quei cadaveri ambulanti, ostinati, lenti, travolgenti e poco spaventosi.
Si, poco spaventosi, perché da Romero in poi negli zombie movie il vero mostro sembra essere l’uomo. Il morto che cammina, a quanto pare, ha la fantastica capacità di trasformare gli uomini in bestie pronte a tutto pur di sopravvivere.
Con il tempo i morti viventi hanno fatto irruzione in innumerevoli film incarnando le più disparate paure di noi viventi morenti: la morte, l’autodistruzione, la perdita dell’individualità e così via; e come non identificarsi in quelle masse ottuse e tutte tese verso un obiettivo vano (cosa vogliono gli zombie dalla morte? Zombificare il mondo? E cosa vogliamo noi dalla vita?).
Paure e identificazione, forse è questa la chiave per capire il fenomeno zombie.
Ci guardiamo allo specchio e vediamo un corpo in decomposizione incapace di parlare, ostinato, ottuso, apatico, asociale, senza storia. Gli zombie non parlano, non sono capaci di interpretare la realtà, la loro cieca e ossessiva vitalità è tutta protesa a soddisfare solo i bisogni più immediati. Sembra o non sembra il ritratto della nostra società basata sul consumo? Ungaretti[3] diceva che se l’uomo non riesce più a parlare, a nominare le cose, forse è perché queste testimoniano un mondo apocalittico dove l’uomo vive perennemente con la possibilità di autodistruggersi. Erano gli anni sessanta. Da tempo, ormai, abbiamo imboccato la strada dell’autodistruzione fischiettando. Pieni di ottimismo e di tecnologie avanziamo a tutta velocità fregandocene della direzione.
Signori e signori, benvenuti nell’apocalisse.
Lorenzo Di Paola
[1] Isaia 26, 19-20
[2] Ezachiele 37, 7-11
[3] In “Delle parole estranee e del sogno d’un universo di Michaux e forse anche mio” 1966