By Wilgengebroed on Flickr [ CC BY 2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0) ] , via Wikimedia Commons

Quando inizialmente i primi dati furono scambiati attraverso dei cavi di rete, probabilmente nessuno avrebbe immaginato la rivoluzione che ne sarebbe scaturita. Il numero dei dispositivi connessi a Internet è cresciuto così rapidamente che siam passati da avere collegati pochi, giganteschi computer, nei maggiori centri di ricerca mondiali, a dispositivi che possono esser piccoli come un orologio, capaci di comunicare e interagire con il resto del mondo. Nel 1999, quando fu menzionato presso un consorzio di ricerca con sede al MIT (Massachussetts Institute of Technology, Istituto di Tecnologia del Massachussetts), l’acronimo “I.o.T.” (Internet of Things, Internet delle Cose), per i contemporanei segnava una visione utopistica, lontanissima. “Internet delle cose” è considerata una delle possibili evoluzioni verso la quale la rete potrebbe muoversi. Tramite sensori, algoritmi, prelievo di dati in tempo reale, oggetti connessi alla rete acquisiscono informazioni e si comportano di conseguenza. Ad esempio, si pensi a un impianto di riscaldamento capace di sapere quando l’abitante di una casa sta per tornare da lavoro: l’impianto si accenderà automaticamente pochi minuti prima facendo trovare la casa calda ed accogliente; oppure, si pensi a un dispositivo capace di conoscere il traffico mattutino, che faccia suonare la sveglia prima o ci lasci dormire un po’ di più prima di recarci a svolgere le nostre mansioni. Le possibili applicazioni non si limitano ai piccoli utenti privati: Internet of Things è infatti un concetto che può esser esteso a realtà grandi come metropoli, rientrando sotto quel ramo di sviluppo che vien chiamato “Smart City”(città intelligente). Per far ciò, una città può essere inondata di sensori di ogni tipo: possono essere segnalati parcheggi liberi, ritardi dei bus, ingorghi dovuti ad un incidente, presenza di inquinamento. Tali informazioni, una volta collezionate, consentirebbero ad esempio di indicare a un cittadino l’ora in cui l’aria è più pulita(per fare jogging), il momento in cui è più facile raggiungere il centro, trovando un parcheggio vicino (per fare shopping), oppure di evitar d’uscire di casa se ci son problemi col bus.

By The National Archives (UK) (The National Archives (UK)) [ CC BY 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/3.0) ] , via Wikimedia Commons

Come si può ben immaginare, dietro a tanto progresso vi sono degli aspetti da valutare, alcuni tecnici e altri che interessano anche i non addetti ai lavori. Innanzitutto, il numero di dispositivi connessi: parlando in maniera semplicistica(per evitare di annoiare i meno addentrati in questo mondo), ogni dispositivo è dotato di un suo “indirizzo” presso il quale recapitare i messaggi. Immaginate ora di avere una strada in cui son disponibili soltanto 100 case abitabili, una famiglia per casa. Questo è il primo problema: la “strada” nella quale abitiamo è troppo piccola per contenere tutte le famiglie e tra le possibili soluzioni si potrebbero aumentare le case su quella strada(tecnicamente parlando, si passerebbe dunque da IPv4, che consente, all’incirca 4 miliardi di indirizzi IP su 32bit, ad IPv6 che permette un totale di 2^128 indirizzi!) oppure rendere condomini queste case, recapitando presso l’indirizzo del condominio il messaggio e lasciando che l’amministratore si occupi di recapitarlo al diretto interessando(utilizzando NAT, “network address translation”, per tamponare il problema portandosi però dietro altre caratteristiche/problematiche di NAT). Altri punti dolenti riguardano quello che potrebbe, per alcuni versi, esser considerato un connubio inscindibile: sicurezza e privacy. A tal proposito, infatti, si può certamente dire che un insieme di sensori che cattura informazioni a tutto tondo sulla sfera personale di un individuo, potrebbe essere utilizzato per spiare completamente il suo utilizzatore e conoscere aspetti delle sue preferenze e del suo stile di vita. Avvertimenti dal mondo accademico arrivano anche a riguardo dell’autonomia decisionale dell’utilizzatore. Secondo il professore olandese di filosofia della tecnologia Peter-Paul Verbeek, la tecnologia andrebbe vista come uno strumento al servizio dell’uomo e non come un agente attivo capace di influenzare le sue decisioni.

Sebbene siano passati circa 15 anni dal concepimento dell’idea di “Internet delle cose” e tutt’ora ci sembri ancora lontana dall’essere realizzata, vi sono esempi concreti di città che stanno puntando verso questo paradigma. Citando alcuni esempi:

  • la città di Rio de Janeiro, in Brasile, ha lasciato che i suoi sistemi di controllo del traffico e delle emergenze fossero amministrati da un hub di tecnologia fornito da IBM e Cisco;
  • nella città di Songdo, in Corea del Sud, la compagnia “SparkLabs” ha investito 35 miliardi di dollari per creare un complesso di 80000 appartamenti designati come la prima “smart city” del mondo;
  • la città di Santander, in Spagna, ha utilizzato un’applicazione connessa a circa 10000 sensori dedicati, fra le varie cose, alla ricerca del parcheggio e al monitoraggio ambientale.

In attesa di vedere anche da noi qualche solida realtà applicata di questa tecnologia che una volta avrebbe potuto esser considerata fantascientifica, speriamo che nel frattempo le problematiche connesse a IoT vengano risolte e di poterla assaporare nella sua variante più matura e meno invasiva possibile.

Fabio Romano

Fabio Romano

Nato a Teano nel 1990 nel pieno della calura estiva (11 agosto), attualmente residente a Cellole. Sin da piccolo appassionato di informatica, dopo il conseguimento della maturità scientifica decide di frequentare il Corso di Laurea in Ingegneria Informatica presso l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli. Chitarrista nel tempo libero, innamorato della musica in tutti i suoi generi, il suo lettore mp3 riporta una playlist che spazia dai Metallica a Debussy. Attualmente collaboratore di Grado Zero e autore di piccoli scritti autosomministrati.

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