Ricordate Il trionfo della volontà, il film documentario del 1935? Probabilmente la più famosa opera di propaganda che abbia preso vita sul grande schermo. Leni Riefenstahl non aveva grande esperienza da regista, ma non le fu necessaria per confezionare un prodotto dalla travolgente intensità visiva ed emotiva. Né in seguito avrebbe fatto grossi balzi in avanti la sua carriera, ma le bastò quel film per raggiungere una popolarità che, nel bene e nel male, è rimasta intaccata al di là degli anni, e al di là delle posizioni politiche e convinzioni ideologiche. Popolarità che deve, da un lato, agli indubbi meriti artistici del suo figlio più illustre, dall’altro al fatto che il suo nome sarà indissolubilmente accostato per sempre a quello di Adolf Hitler.
Il cinema propagandistico, notoriamente legato ai grandi regimi dittatoriali del secolo scorso, sembrava quasi essersi estinto dopo la Guerra fredda. Più precisamente, si potrebbe dire che abbia percorso altre vie, che portavano lontano dalle sedi del potere. Il genere cinematografico è ancora vitale se si considerano quegli innumerevoli casi, anche recentissimi, in cui la campagna è volta a smantellare uno stile di vita, un vizio, un abuso, che si tratti di sostanze stupefacenti o di una catena di fast food. Ma la propaganda politica, che fine ha fatto?
In tempi non sospetti, ci ha pensato Michael Moore a rinverdire la categoria, con uno degli esempi più celebri degli ultimi decenni. Fahrenheit 9/11 ha fatto discutere persino le pietre. E oggi, di quali altri esempi ci possiamo avvalere? American Sniper, tanto chiacchierato e tanto contestato, è un film di propaganda degno di questo nome?
Secondo il New York Times, sì. Propaganda allo stato puro, per il Partito Repubblicano, per l’America, la sua politica estera e il suo esercito. Creazione di un mito ed esaltazione del coraggio e della virtù americana. Glorificazione dei soldati valorosi andati a combattere l’aggressore straniero. American Sniper è davvero tutto questo?
Partiamo dai fatti. Che Clint Eastwood sia repubblicano fin dalla giovinezza, non ci sarebbe nemmeno bisogno di ricordarlo. È per questo un indefesso difensore della bandiera a stelle e strisce nonostante tutti e nonostante tutto? O meglio, essere repubblicani implica anche osannare la nazione sempre e comunque? Il regista di American Sniper è lo stesso Clint Eastwood che quattro anni fa buttò l’occhio nel privato di J. Edgar Hoover, mostrandoci paure e debolezze del direttore dell’FBI, forse non vere, forse romanzate, ma che ugualmente lo fanno scendere giù dal piedistallo. Ed è anche lo stesso regista che in Lettere da Iwo Jima ha guardato al Giappone così come il Giappone era, senza preconcetti e filtri vari. Lo stesso che, accusato di aver eliminato l’indole razzista dal suo personaggio, parlava di razzismo già in Invictus e Gran Torino. L’impressione è che, piuttosto che all’esperienza politica del regista e attore, si dovrebbe dare un’occhiata agli altri titoli della sua ben nota filmografia, per comprendere che Eastwood non è insolito dal raccontare storie complicate e un po’ controverse.
Lo stesso Michael Moore di cui parlavamo prima ha scritto in un tweet che i cecchini non sono eroi, e gli invasori nemmeno. Ancora una volta, è lecito dire che il film trasformi Chris Kyle, il cecchino dei Navy SEALS che sparò ad oltre 250 uomini durante le sue missioni in Iraq, in un eroe? Senza dubbio c’è una larga fetta dell’opinione pubblica statunitense che la pensa così, ma non per questo American Sniper va letto come l’apoteosi di un soldato e della guerra a cui prese parte. Più che gli attacchi, le invasioni, gli scontri armati, più che le distinzioni tra cristiani e musulmani o tra Oriente e Occidente, sono le conseguenze della guerra a entrare in gioco. Questo è un film su ciò che la guerra ti lascia addosso, sulle bombe che continuano a scoppiarti in testa anche quando sei al sicuro tra le tue quattro mura, a casa, davanti alla tv. È un film in cui i veterani riportano ferite incurabili, e le famiglie piangono i propri morti causati da una violenza insensata. Qualunque cosa voglia dirci il regista, sicuramente non è un invito ad arruolarci.
Chris Kyle morì nel 2013, a quasi 39 anni, ucciso da un altro soldato che soffriva di disturbo traumatico da stress. Di lui si dice che fosse violento, ubriacone e crudele. Guardando il film, è inevitabile che si finisca col fare il tifo per Bradley Cooper, nella speranza che il suo personaggio possa tornare ad abbracciare la moglie e i bambini. Partire dalla sua vicenda, però, può essere soltanto un modo per raccontare che vincere una battaglia, come una partita di rugby, o un incontro sul ring, non ti assicura sempre una vita facile, e che in guerra, a volte, si perde da entrambe le parti. O forse poteva essere soltanto un espediente per raccontare una pagina non lontana della nostra storia mondiale attraverso uno dei suoi protagonisti e la sua biografia. Eastwood non deve dirci come sono andate le cose, chi dobbiamo votare, chi dobbiamo odiare. Non è compito suo raccontarci la storia, ma solo una storia, scegliendo un particolare punto di vista, che ci piaccia o meno. E il punto di vista, qui, è quello di un uomo che in quella guerra ci ha creduto davvero, nella stessa guerra che il regista, e questo film, mettono in scena senza la sua stessa sicurezza e la sua fede. La propaganda è altra cosa.