Nell’antica Roma le attrici erano considerate alla stregua delle prostitute: donnacce di malaffare che erano continuamente a contatto con uomini a cui fornivano prestazioni di natura promiscua.
Chissà se Luciano Melchionna, visionario drammaturgo e regista teatrale, aveva in mente quest’idea quando otto anni fa ha aperto la sua itinerante “Casa chiusa dell’Arte” dove gli attori, come le prostitute, sono alla mercé dello spettatore.
“Dignità Autonome di Prostituzione” infatti non è uno spettacolo come gli altri e per una sera il teatro perde la sua aura sacrale e il suo tono austero per diventare un confusionario e affollato bordello popolato da figure dissacranti e carnevalesche, simbolo di un mondo irriverente e atipico che maschera le sofferenze con glitter e boa di struzzo.
Il pubblico entra tutto insieme e ciò che si trova davanti è una sala spogliata delle poltrone e illuminata da luci fucsia e rosse in forte contrasto con gli angeli e i puttini dipinti sulle pareti e sulle volte. Ma il tempo per guardarsi attorno è poco perché immediatamente si è catturati dal richiamo delle dame che pretendono attenzione e promettono uno spettacolo indimenticabile; lo spettatore ne sceglie una e la segue, ammaliato, e pensa quasi di essere l’unico quando poi si guarda attorno e vede altri dieci, venti spettatori che come lui stanno seguendo proprio quella donna.
La prostituta raggruppa i suoi clienti aiutata dal suo protettore e, nello stupore generale, li conduce fuori dal teatro e li porta in un bar, una libreria, una piccola galleria d’arte, o qualsiasi posto adatto ci sia nei paraggi facendo continue allusioni e battute spinte su quello che li aspetta una volta entrati.
E così ci si ritrova in venti in una stanza piccolina: gli uomini ridacchiano immaginando uno spogliarello, le signore un po’ infastidite guardano la provocante donna in rosso al centro della scena, l’aria è distesa, divertita.
La prostituta comunica il prezzo della sua prestazione, “Tre dollarini a testa!” esclama e il pubblico/cliente protesta “Sono troppi!”, lei allora ribatte con aria ammiccante “Eh, ma guardate quanti ne siete… io sono una, mi aspetta un lavoraccio!”; la contrattazione va avanti per un po’ e alla fine si arriva a un compromesso, tre dollarini a coppia e non se ne parla più.
Il protettore passa a riscuotere il denaro e la donna si fa seria e invita il pubblico, ancora preso dalla situazione fino al momento prima goliardica, a tacere: le luci rimangono accese e dalla sala accanto arrivano le voci dei clienti del bar che ordinano da bere, fuori passanti e automobili continuano a far rumore eppure nella stanza non vola una mosca e nel silenzio più totale l’attrice, ancora agghindata con gioielli vistosi e abiti succinti, inizia il suo monologo.
Storie struggenti e sofferte che stridono con l’euforia di poco prima e che spazzano via per cinque-dieci minuti l’allegria che aveva invaso il pubblico/cliente poco prima e che per questo ha su di lui un effetto di catarsi, di depurazione.
Alla fine del monologo l’attrice sparisce e ritorna la prostituta irriverente che informa che la prestazione è finita, cacciando via tutti; gli spettatori devono allora mettersi alla ricerca di un’altra prostituta e un’altra storia.
A un certo punto si torna tutti dentro per il gran finale, Melchionna fa sedere il pubblico un po’ dove capita: per terra, nei palchi, su qualche sedia buttata qua e là; tutte le prostitute/attrici coi loro protettori sono in scena a ballare, cantare, suonare o fare qualche numero di giocoleria offrendosi ai loro clienti per l’ultima volta.
Poi risalgono tutti sul palco, un inchino alla platea e il sipario cala davanti a loro lasciando lo spettatore con gli occhi ancora colmi di colori e di luci e il cuore un po’ più leggero e più sereno.
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