Ogni prodotto dell’uomo è manifestazione concreta della sua anima. Questa considerazione può valere, oltre che per ogni quotidiano atto umano, soprattutto per le arti: attraverso la poesia, la pittura, la scultura o la musica l’uomo rende in qualche modo tangibile l’impetuoso flusso del suo sentimento. E l’operatore di queste manifestazioni del cuore umano è il genio che, traendo dalla natura la sua ispirazione e imitandola, manifesta così i variopinti aspetti della vita umana. Il genio opera sull’ordine traendone il disordine, sulla calma traendone il caos, sulla staticità traendone la dinamicità. Ed è su questa dicotomia che il genio trova così l’armonia.
L’universo, in cui pare regni la quiete, è dominato dal moto degli astri; tale calma e caos separati sono inconcepibili, slegati, innaturali; ma la natura che li ha creati li ha voluti uniti, e dalle dissonanze nasce l’armonia del firmamento. Non si tratta di un semplice ossimoro, del quale forse si fa spesso sterile abuso ai giorni nostri al fine di creare effetti “sbalorditivi”; si tratta invece della vera essenza delle cose composte in egual misura da forze opposte. Si pensi ancora al complesso marmoreo delle Grazie di Canova pervaso da tanta leggiadria e morbidezza di forme impresse nel duro marmo; eppure sembra che danzino in voluttuosi e vivi atteggiamenti. Si pensi, ancora, al complesso monumentale de Duomo di Milano che con le sue vertiginose altezze, le asimmetrie, i giochi di forze, non potrebbe essere più naturale di come appare ed effettivamente è.
Ecco quindi che l’idea del sublime si presta perfettamente a un’altra arte che, al fronte di quelle sopra citate, viene spesso taciuta: l’architettura.
È l’arte con la quale ognuno ha più spesso, per non dire quotidianamente, a che fare. Si potrebbe quasi dire che l’architettura sia, dopo la pittura rupestre e rudimentali forme di artigianato, la prima arte nella quale l’uomo si sia cimentato spinto dalla necessità: l’uomo preistorico “architettava” palafitte le quali risultavano essere tecnicamente semplici eppur complesse e necessarie per la vita di allora. Con il progresso poi e l’avvento delle grandi civiltà le architetture divennero simbolo di magnificenza e manifestazione del loro potere: ecco allora le grandi piramidi, la Torre di Babele, leggendaria Ziggurat; ecco il Panteon, il Circo Massimo, ormai perduto, e il Colosseo. Monumenti carichi di storia, bellissimi, anzi, sublimi. E l’uomo, dietro queste meraviglie, può definirsi giustamente creatore in quanto egli plasma la sua immaginazione in forme concrete imitando la natura e cercando di carpirne i segreti. Ecco la torre che brama il cielo e l’oscurità dei monumenti egizi.
E se l’uomo è creatore, allora ben disse nel I secolo avanti Cristo Vitruvio nel suo De architectura assimilando l’uomo a Dio. Vitruvio immaginò l’uomo in perfetta armonia con le cose create; proportio, euritmia e symmetria erano i principi di tale armonia, i quali, grandi per l’epoca, vengono poco considerati ai giorni nostri. L’architettura e, se si vuole, l’urbanistica contemporanea fondano i loro principi quasi esclusivamente su funzioni spazio-volumetriche di matrice matematica attraverso le quali gli architetti innalzano edifici; non sembrano tenere conto di quei principi espressi da Vitruvio considerando, invece, un edificio soltanto frutto delle leggi matematiche e geometriche, scienze esatte ma pur sempre basate su calcoli astratti. Si potrebbe quindi ardire che esse siano frutto di quell’ideale che giace nella mente umana e che non ricerchino il vero che vive nella natura; tale “sentimento del vero” può essere ritrovato in quella che può essere definita la poesia di cui si dovrebbe impregnare l’architettura: la luce.
Tale luce va intesa come l’aspetto, o meglio, l’impressione di un qualche cosa, in questo caso della bellezza estetica delle architetture, negli occhi di chi ammira, e dagli occhi nel cuore. Causa di questa mancanza di luce è forse il fatto che l’uomo non è più abituato a guardare e quindi sembra non si costruisca più qualcosa per essere guardato e ammirato.
E di tale mancanza l’uomo ne risente. La mancanza di un effetto estetico necessario come la luce, condiziona, come afferma Nicola Mazzeo nel suo saggio Dalla struttura alla poesia e dalla terza alla quinta dimensione, la vivibilità dell’uomo nei centri soprattutto urbani venendo così a mancare un’identità del luogo e un riconoscimento di questo come “casa”. Inoltre la mancanza di un’identità del luogo coincide con una recisione di tutti i legami con la memoria passata, intesa, appunto, come quella identità che in tempi più o meno remoti, ma oggi andata perduta, ha caratterizzato ogni luogo.
Mazzeo continua affermando che le scienze esatte non tengono più conto di questo, per così dire, fattore umano. Egli infatti afferma:
Ciò che è preciso non è perfetto.
La risoluzione del problema starebbe, secondo lo studioso, nella funzione dello spazio-tempo di Albert Einstein, e precisamente nella sua quarta dimensione, nella quale matematicamente vi è un “ritorno” alla luce e alla memoria. Così infatti si esprime Mazzeo:
La commistione della poesia e dell’architettura si intravede e coglie nella Relatività di Einstein e segnatamente nella funzione dello spazio-tempo. Come membro dell’equazione compare il fattore “tempo”, intendibile anche come memoria passata, in grado di generare poesie spazio-volumetriche venienti dalla nostra Gaia e dai nostri padri poeti. Tali poesie venienti dalla natura e dalla cultura, dalla luce e dal tempo, intersecandosi tra loro forniscono le materie per costruirne di nuove. Nella suddetta funzione, Einstein offre non solo il tempo e la luce, ma anche offre le loro “filiazioni”, ossia i cangianti colori. Da queste considerazioni Einstein, se è vero che i colori sono filiazioni della luce, ci consegna memoria e radici, luce e colori, le loro mutevoli narrazioni, ossia elementi imprescindibili per poter costruire o ricostruire le migliori poesie spaziali degne di essere vissute.
È la natura quindi che fornisce all’uomo le materie prime per le sue invenzioni, per le sue arti. Egli deve accoglierle nella sua fantasia poiché senza di esse la sola immaginazione umana non può scorgere le verità che in sé la natura nasconde; mentre quando le accoglie, e fonde quelle materie prime, il vero della natura, con la propria immaginazione, l’ideale della mente, l’uomo ode appena quelle voci armoniose e perfette poiché egli non è costituito dalla stessa sostanza della natura; soltanto così l’uomo dà libero sfogo alla sua essenza e al suo carattere.
Ma l’anima dell’uomo è purtroppo sia luce che oscurità ed è chiaro dalle sue azioni: si pensi ai molti siti d’arte scaturiti dal genio dell’uomo che cadono nella polvere dalla mano dell’ignoranza e dell’incuranza di molti.
Si può, pertanto, solo concludere citando una frase del noto architetto F. L. Wright e lasciarne l’interpretazione alla coscienza del buon lettore:
Ciò che l’uomo fa, egli è ed egli ha.
Salvatore Di Marzo
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