Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953) è una poetessa e traduttrice italiana, compagna del poeta, saggista e traduttore Giovanni Raboni; la sua scrittura, curatissima e in un interessante quanto (a mio parere) ben riuscito equilibrio tra la lirica antica e la poesia moderna, l’ha portata a essere considerata, sin dal suo esordio nel 1981 con la raccolta poetica Medicamenta, un vero e proprio “caso letterario”.
La prima pubblicazione della raccolta appare sul n. 10 dell’Almanacco dello Specchio con prefazione del già citato Raboni; i quattordici componimenti da cui è composta sorprendono innanzitutto per le scelte metriche compiute dalla poetessa: vi ritroviamo tutti i generi metrici tradizionali dalla terzina dantesca alle stanze di ballata, dal sonetto all’ottava.
E anche l’argomento della poesia, l’amore/eros, viene affrontato con una verve e una consapevolezza nuovi alla poesia moderna: l’amore e il sesso strabordano dal piacere e perseguono un desiderio, che Recalcati nel suo libro “Ritratti del desiderio” descrive come «erratico, eccentrico, incostante oltrepassamento di qualunque soddisfazione possibile»[1] ed è per questo che Valduga cerca dei medicamenta appunto, che molto spesso sono più che altro “farmaci, veleni, filtri d’amore”[2].
Lo vediamo ad esempio nel sonetto “Frissi d’amor con arte”, il cui esordio è un eco-parodico della Tosca in particolare e del topos poetico dell’ “ardere d’amore” in generale che percorre tutta la lirica amorosa dal Trecento ai giorni nostri.
L’argomento amoroso vede in questa poesia uno sfogo canzonato, la poetessa gioca continuamente con i poliptoti (“influssi, afflussi e deflussi”, vv. 6-7) e l’allitterazione del gruppo consonantico “-ssi” al punto da far apparire il componimento come una sorta di filastrocca per bambini dove non mancano neppure lallaismi come “pissi pissi” del v. 3.
Ma l’abilità scrittoria della Valduga sta soprattuto nel modo in cui riesce con un’abilità magistrale a giustapporre termini aulici e turpiloqui, passando da un tono iper-letterario, degno della più altisonante poesia, a gergalismi e parolacce colloquiali e ‘ultra-terrene’ e così ad esempio dopo il ricercatissimo e quasi sconosciuto “fui sussi” [3]del v. 9, ci stupisce con il “testa di cazzo” del verso successivo; oppure come fa seguire all’infantile “pissi pissi” del v.3, la frase “In rime parossitone mi strussi.” laddove le rime parossitone sono un chiaro richiamo alla tradizione poetica più antica mentre quel mi strussi è un coltismo.
Così come l’invocazione “o mio cuore”, che apre l’ultima terzina, è un omaggio ad un altro grande tòpos letterario che risale addirittura al tempo della lirica e della tragedia greca: lo troviamo ad esempio nella Medea di Euripide, quando Medea partorendo l’idea del matricidio si appella al suo amore materno e quindi al suo cuore con l’esclamazione “O’ tumos”.
Valduga vive e scrive nel momento culmine della crisi della parola, l’epoca del post-montaliano mutismo espresso nell’emblematica frase “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.” della poesia Non chiederci la parola, «non perché fosse impossibile dire meglio, dire di più, ma perché era ormai impossibile dire qualcosa con quelle parole»[4], dice Baldacci[5] che vede la scrittura della poetessa come il gioco «di chi si diverte a ritagliare il linguaggio degli altri, a lavorare di forbicine e di colla»[6] e con questo minuzioso e consapevole lavorio Valduga riesce a interiorizzare la crisi della parola e cerca di uscirne provando a mescolare in maniera innovativa il vecchio e il nuovo, riuscendo a parlare di grandi sentimenti e grandi tormenti con un tono che mescola il serio e il faceto, un carnevale (inteso in senso medievale di mondo al rovescio in cui l’illecito diventa lecito) di parole ed emozioni che si confessano, si liberano, riuscendo a stracciare quello che Baldacci definisce “una camicia di Nesso”, uno schema poetico soffocante che ormai non sa più comunicare e per questo deve essere distrutto creando il nuovo dalle sue ceneri. Valduga è quindi una fenice della poesia moderna, che parte da Dante per approdare alla più avanguardistica poesia contemporanea e noi non possiamo che ammirarla e ammettere che non esiste «tra i moderni, un poeta che abbia allacciato così strettamente la propria urgenza di esistere con l’urgenza di dire e di dirsi.»[7]
Nike Francesca Del Quercio
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