Nessuno dei presenti, quando questi comincia a raccontare, dopo aver preso spunto dagli argomenti trattati, sembra notare che inventi le storie. Sembra piuttosto, dalla fluidità con cui il buon vecchietto dispiega i fatti, che si tratti di ricordi, di istantanee della memoria ripresentatesi perfettamente nitide.
Peculiarità degli undici racconti (dieci più uno conclusivo) è lo spiccato interesse per i fenomeni spiritici, parapsicologici, i rari casi di psicopatologia e l’attenta curiosità verso il progresso tecnologico (mito dell’età positivista).
Intendendo la fantascienza come quel genere che si fonda su ipotesi o intuizioni di carattere, più o meno plausibilmente, scientifico, potremmo definire tale il Decameroncino.
Questo è il titolo della raccolta di novelle pubblicate da Luigi Capuana (1839-1915) nel 1901; dove il modello boccaccesco, dichiarato nel titolo, è rispettato solo nell’architettura narratologica.
La prima giornata si apre con la vicenda di un giovane ricercatore di cosmetici, miracolosi per la fidanzata. L’attenzione potrebbe qui concentrarsi sulla lunga tradizione letteraria legata a scambi di filtri, d’amore e morte, tra innamorati. In realtà l’accento è da porre sul decadimento della ricerca scientifica che si disperde nell’interesse per un dentifricio o un’acqua rigeneratrice per capelli («a che serviva la scienza, se non aiutava a trovarli?»). E sulle spietate agenzie di réclame, pronte a vendere i loro prodotti fingendo di conoscere il segreto miracoloso che il giovane innamorato ha portato con sé all’altro mondo.
Nelle novelle del Decameroncino Capuana manifesta, con lieve ironia, una sottile polemica nei confronti delle nuove generazioni. E non è solo il caso dello svilimento della ricerca scientifica appena descritto: l’autore mineolo mette in scena la crisi dei valori descrivendo, forse estremizzandole, situazioni extraletterarie, probabilmente ripescate dal vissuto; che sembrano suggerire in anticipo quei personaggi che incarnano tesi astratte nel romanzo borghese di Moravia.
I contenuti che Capuana sviluppa all’interno di questa raccolta – ritenuta tutt’oggi un’opera minore nonostante il successo iniziale – si pongono a metà strada tra gli espedienti narrativi di fine Ottocento (naturalisti o veristi, per come meglio si creda definirli) e quelli che troveranno maggiore sviluppo nel Novecento.
Per spiegarmi ricorro alla novella conclusiva della raccolta.
Il dottor Maggioli, spinto da un suo interlocutore a realizzare un volume di novelle, che serva ad allietare i lettori tanto quanto chi lo ascolta dal vivo, si dedica anima e corpo alla scrittura di una storia d’amore, incappando nel problema, tutto verista, di dover ritrarre fedelmente due personaggi della realtà ordinaria, presi a modello, per realizzare una storia a sfondo sentimentale.
Maggioli scopre però di voler “forzare” la realtà e di voler offrire ai due fidanzati un destino alternativo a quello imposto dai due modelli.
Dovendo rinunciare, per motivi di convenienza sociale, il protagonista si troverà perseguitato ogni notte dai personaggi lasciati a metà della novella:
«O dunque? Ci lascia così, né in cielo né in terra; con le mani in mano, in questo stato? Una fine dobbiamo farla, non possiamo rimanere perpetuamente innamorati, e nelle circostanze in cui ha avuto la crudeltà di abbandonarci!».
Fino a decidere, per ritrovare la pace, di concludere la storia con poche frasi risolutive: per appagare i due innamorati e per offrire, forse, una suggestione – come ha notato qualche critico – a Luigi Pirandello e ai suoi Sei personaggi in cerca d’autore.
Col Decameroncino, quindi, Capuana pone il punto d’arrivo della narrativa italiana ottocentesca e avvia, in nuce, i caratteri del Novecento.
Antonio Esposito
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