Questo articolo segue la presentazione, a cura di Giancarlo Alfano e Matteo Palumbo, del nuovo volume Einaudi Il libro di Johnny di Beppe Fenoglio, con l’intervento del curatore del volume, Gabriele Pedullà.
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Il problema nasce dalla ritrosia di Garzanti, nuovo editore di Fenoglio una volta abbandonato Einaudi, a pubblicare un testo in due parti (forse fresco dei problemi con Gadda, che latitava nel consegnargli la seconda parte di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, mai arrivata). Consiglia così a Fenoglio di chiudere la vicenda del romanzo. Vengono aggiunti tre capitoli conclusivi che portano alla morte del protagonista, rendendo impossibile una continuazione (oltre a ciò c’è anche un forte labor limae sulla prima parte. Dovendo essere un «libro grosso», un’introduzione alla vicenda più ampia era giustificata. Nel momento in cui questo libro si dimezzava, era necessario entrare prima nel vivo della vicenda).
La versione di Primavera di bellezza così pubblicata è la seconda redazione del romanzo, contrapposto alla prima priva dei tre capitoli e del labor limae, la redazione – insomma – scritta come prima parte del «libro grosso».
Anche Il partigiano Johnny presenta due redazioni in cui – fra le altre cose – cambia il destino del protagonista nel finale (commenta Pedullà, che ogni volta che Fenoglio rimette mano ai suoi testi, fa morire il protagonista). La seconda redazione è lacunosa, e peggio si sposa con la prima redazione di Primavera di bellezza. Il libro di Johnny presenta quindi fuse insieme le prime redazioni di entrambi i romanzi.
Il punto del discorso, dopo questa lunga introduzione, è: era necessaria un’operazione di questo tipo? E soprattutto, è filologicamente accettabile?
Per rispondere alla prima domanda è importante ricordare che Primavera nasce come prima parte di un progetto più grande, e come tale presenta degli elementi che serviranno solo in seguito, nella parte rappresentata da Il partigiano. Un esempio è l’importanza del fiume per Johnny che, preso esclusivamente nella prima parte, non può essere colta. E – d’altra parte – alcuni personaggi presentati come se Johnny li conoscesse già – ne Il partigiano – possono essere compresi solo se si conosce la prima parte.
Insomma, il fatto che Fenoglio abbia abbandonato il progetto del «libro grosso» non sarebbe problematico se non esistesse Il partigiano Johnny. Ma dal momento che questo romanzo esiste e che è concepito come una seconda parte di un insieme, non si può prescindere dal metterlo in collegamento con i capitoli incipitari.
E qui si arriva al punto forse più importante, su cui avevo maggiori riserve: si utilizza per questo libro una primavera di bellezza che non è quella pubblicata da Fenoglio, non è l’ultima volontà d’autore, per parlare in termini filologici. Gabriele Pedullà è stato però molto chiaro: Il libro di Johnny non si sostituisce a Primavera di bellezza, ma solo al Partigiano. Si affiancano dunque in libreria i due progetti voluti dall’autore: il «libro grosso» e Primavera di bellezza. In questo senso la ricostruzione filologica di Pedullà non va a cancellare l’ultima volontà d’autore, ma a restituire un progetto non realizzato editorialmente, e a dare un senso compiuto a Il partigiano Johnny.
Il libro di Johnny si presenta dunque come un nuovo modo di intendere uno dei capolavori di Fenoglio e di tutta la letteratura novecentesca italiana, restituendolo a un progetto certo abbandonato (anche con piacere, per potersi dedicare a Una questione privata), ma poi reso pubblico postumo in una sola sua parte. Se Il partigiano Johnny va letto, mi sembra che l’unico modo di restituirlo all’intentio auctoris sia di ricongiungerlo alla sua prima parte – quella prima parte scritta proprio in funzione della seconda – e di poterlo così restituire nella pienezza del senso che Fenoglio aveva voluto – o avrebbe voluto – dargli.
Maurizio Vicedomini
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