“Che il cinema potesse diventare prima di ogni altra cosa una macchina atta a raccontare storie, ecco qualcosa che non era stato davvero previsto”
Christian Metz, semiologo cinematografico francese, forse pensava a qualcosa che era ancora agli antipodi del cinema, alle prime riprese dal vero, quando nessuno poteva minimamente immaginare quale tipo di storia ci avrebbe raccontato nei decenni a venire. Prima che il muto passasse definitivamente di moda, però, già il regista D. W. Griffith aveva la consapevolezza che di racconto si trattava, come pure che tra il suo modo di raccontare e quello di Dickens c’era una sola, significativa differenza: il suo era un racconto per immagini. Metz e Griffith ci portano dritto a una conclusione (che in realtà sarà il nostro punto di partenza), e cioè che il cinema poteva raccontare storie, e che quelle storie poteva averle già raccontate la letteratura, rendendo vivo quello che con le pagine dei libri si può soltanto immaginare.
Ma non è del Signore degli Anelli che vogliamo parlare. Né di Via col Vento. Né dei romanzi di John Grisham. Parliamo di classici italiani, di quel tipo di classici che decenni (o anche secoli) separano da noi. Solitamente, chi fa cinema preferisce portare sul grande schermo un best-seller contemporaneo, anche perché già quella di cavalcare l’onda di un successo del momento è di per sé un’ottima idea. Si tratta di una tendenza internazionale, a cui l’Italia non fa eccezione. Invece, andare a scavare nei secoli remoti della cultura è un fastidio che pochi si prendono, soprattutto negli ultimi anni, dove diversificare l’offerta diventa sempre più arduo. Anche Il Gattopardo, se ci pensate, ci ha messo solo cinque anni a diventare un film, mentre La ciociara di Moravia ne ha impiegati tre, e il pasticciaccio di Gadda solo due. Più passava il tempo, e più ci si dimenticava delle pietre miliari della nostra letteratura. Dalla metà degli anni Ottanta, la volontà di trovare l’ispirazione in quei capolavori è scemata sempre più e, se il sottoscritto ha fatto bene i conti, negli anni 2000 si è avuto un solo caso di film con una certa visibilità (anche all’estero) che riscoprisse uno di quei classici italiani, il Pinocchio di Benigni, per altro con esiti assai discutibili (e se pure i calcoli fossero sbagliati, il risultato cambierebbe di poco). In questo sta una delle novità rappresentate dall’ultimo film di Matteo Garrone, Il racconto dei racconti – Tale of Tales, che deve la sua esistenza a quella raccolta di fiabe che è Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. A Garrone, agli sceneggiatori, ai produttori si deve il merito di aver creduto che un testo del Seicento letterario italiano non avesse ancora esaurito il suo fascino. Vero è che un’operazione del genere in tempi recenti è stata compiuta anche da Ermanno Olmi che, con Torneranno i prati (2014), ha ripreso un racconto di Federico De Roberto, e dai fratelli Taviani, che sono andati a mettere le mani direttamente nel Decameron per il loro Meraviglioso Boccaccio (2015).
A Matteo Garrone, però, spetta un riconoscimento in più, perché non solo ha detto ai suoi colleghi cineasti, all’Italia, al mondo che c’è tanta letteratura da riscoprire, agendo, con il suo film, anche come stimolo alla lettura, ma ha dovuto inventarsi pure un linguaggio: quello fantastico. In Italia non abbiamo mai avuto un vero e proprio cinema di fantascienza, o fantastico, o fantasy, e combinare un’opera letteraria di quasi quattrocento secoli fa (e nemmeno tra le più famose) con un genere che gli italiani hanno sempre avuto fatica a coltivare, dev’essere stata un’impresa. Tanto più difficile se si considera che, nonostante un’efficace campagna pubblicitaria, non è esattamente un film che si presta al rapporto col grande pubblico. Un fantasy d’autore lo potremmo chiamare, e allora ci sarebbe pure il merito di aver dato una veste raffinata ad un genere di per sé popolare. Anche qui bisogna ricordare l’ultimo tentativo di Salvatores, Il ragazzo invisibile (2014), ma pochi casi sporadici non bastano a fare un genere. E poi, c’è quella questione dell’internazionalità. Terzo pregio. Che non sta soltanto nel cast composto, per esempio, da Salma Hayek e Vincent Cassel, o nel sottotitolo in inglese, né soltanto nella presentazione a Cannes. Il racconto dei racconti è proprio una di quelle pellicole che, dopo aver già conquistato la stampa di ogni dove, hanno tutte le carte in regola per funzionare all’estero, per esempio presso un pubblico spagnolo, già avvezzo al genere fantasy tanto in letteratura quanto al cinema, ma anche in Francia, o in Inghilterra, e chissà forse anche in America.
Il racconto dei racconti è un film che testimonia le potenzialità inesplorate del cinema italiano, in grado di proiettare verso il futuro il nostro passato più mitico, solenne, insolito, di riscrivere le regole di un’industria che non conosce una terza via tra il dramma e la commedia, e che troppo spesso non sa combinare l’intrattenimento con l’espressione artistica. Magari per il prossimo Natale si potrebbe fare una commedia da Goldoni, per Halloween un film ispirato alle raccolte di Dino Buzzati, e per il prossimo festival mettere su un kolossal tratto da I Promessi Sposi.
Andrea Vitale