Il libro, diventato ormai un classico imprescindibile della letteratura novecentesca, vide poi la pubblicazione nel 1914 ad opera dell’editore Grant Richards. Quali furono le critiche apportate a questa serie di racconti dai (poco lungimiranti) colleghi di Richards?
Più che vere e proprie critiche, a Joyce fu rivolto un cauto, diplomatico consiglio: apportare alla sua opera alcuni “ritocchi”, per attenuare l’immagine che, al suo interno, dava della città: squallida e triste.
Per l’autore, impossibile accettare, impossibile piegarsi a questo consiglio.
Cos’era la Dublino di Joyce? Innanzitutto, qualcosa di lontano da lui. Da un punto di vista fisico: Gente di Dublino fu scritto nella prima fase di un esilio autoimposto, nella nostra Trieste. Da un punto di vista intellettuale: Dublino angusta e religiosa, Dublino e la sua mentalità chiusa nei confronti della cultura, della vita, della verità.
Ma, anche, Dublino amata. Nonostante tutto. Come poteva essere diversamente, per un uomo che decise di fare della propria città e del proprio Paese lo sfondo e il tessuto della sua letteratura? Una letteratura nuova, e per questo non compresa: la stessa, in nuce, che avrebbe portato al rivoluzionario Ulysses.
A dispetto del titolo, che caratterizza in modo “locale” i personaggi dei 15 racconti che costituiscono l’opera, le vite, le anime e le storie in essi raccontate sono universali. È l’umanità, non una umanità; Gente di Dublino, o Gente di New York, o Gente di Berlino, poco cambierebbe.
I personaggi sono in realtà soltanto gli specchi in cui l’autore riflette se stesso, e il mondo, e la Storia, le passioni di tutte le donne e di tutti gli uomini, l’angoscia di una vita che sta stretta a chi la vive.
Per ottenere questa universa(ti)lità Joyce utilizza una serie di accortezze narrative e strutturali.
Andiamo con ordine.
Lo stile: realistico, caratterizzato da una tagliente precisione lessicale, da un’attenzione per i dettagli che va oltre lo scopo descrittivo, anche nel dipingere i paesaggi e gli sfondi delle vicende. Un realismo simbolista, che coglie quindi la difficoltà e la pluralità di interpretazioni di una stessa – appunto – realtà. Il narratore è pressoché invisibile, inesistente: testimonianza di ciò l’uso prevalente del discorso diretto o dell’indiretto libero (già riecheggia, allora, una vaga idea lontana del flusso di coscienza dell’Ulysses).
Allo stile innovativo, però, si lega poi in qualche modo una scelta affine alla letteratura classica: dividere la propria opera in sezioni tematiche, rappresentanti le fasi della vita umana. I primi tre racconti (tra i quali spicca il famosissimo Le sorelle), infatti, indagano il mondo dell’infanzia; i quattro seguenti l’adolescenza, e poi ancora la maturità; infine, altri tre racconti ruotano, distaccandosi in qualche modo dagli altri, intorno al tema del rapporto tra uomo e l’opinione pubblica.
Alla fine dei racconti è presente un epilogo, I morti. È il racconto più lungo. Si tratta della storia di una crisi morale, spirituale, culturale, vissuta dallo scrittore e insegnante Gabriel Conroy. Il tutto, pervaso da una strana malinconia, o forse sarebbe più corretto dire nostalgia, nel guardare a un passato puro, lontano, diverso.
E la crisi spirituale di Conroy, in un certo qual modo, si ricollega alla particolarità tematica di questi racconti, tutti strutturati attraverso l’analisi del rapporto dialettico tra i due concetti di paralisi e fuga.
La paralisi, morale, è causata dal mondo e dalla mentalità in cui vivono i personaggi. La fuga, spirituale o anche fisica, è il disperato tentativo dei protagonisti di tornare a camminare, liberandosi della paralisi stessa.
Una fuga, però, destinata per sempre a fallire. Una fuga senza speranza, intrapresa follemente da una schiera di (quasi)inetti.
A completare l’opera, a cancellare quel quasi, sarà un carissimo amico di Joyce, il nostro Italo Svevo. Anche lui, incompreso. Anche lui, rifiutato dalle case editrici.
Anche lui, oggi, uno dei pilastri del Novecento.
Beatrice Morra
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