Gli italiani parlano ancora italiano? Il falso mito dell’inglesorum
Il lessico è lo strato più superficiale della lingua e quello maggiormente sottoposto alle pressioni esterne: le parole nuove entrano in tutte le lingue attraverso processi neologici che rispondono a bisogni sempre nuovi della comunità di parlanti.
Le sorti dei neologismi però sono sempre incerte e parole che entrano in maniera dilagante nel linguaggio in un certo periodo possono scomparire nel giro di pochi anni e altre, passate in sordina all’inizio, rimanervi stabilmente.
Gli ultimi decenni hanno visto un forte incremento di entrambi questi fattori e la produzione di neologismi pare cresciuta in maniera esponenziale, questo ingresso così massiccio di prestiti dall’inglese nella nostra lingua, dovuto sia al ruolo quasi ufficiale di lingua franca dell’Unione Europea assunto dall’inglese negli ultimi decenni, sia all’apertura delle frontiere comunicative che si è avuta con l’avvento di internet e in particolare dei social network, ha preoccupato non poco i puristi della lingua che hanno coniato delle definizioni per questa commistione linguistica: italglese, itangliano, italiese, inglesorum.
Antonelli fa notare però che «se si guarda ai dati obiettivi all’inizio degli anni Sessanta l’incidenza degli anglicismi integrali era al di sotto dell’1% del patrimonio lessicale dell’italiano; oggi raggiunge all’incirca il 2%. Una percentuale che si abbassa drasticamente se ci si limita alle parole usate con maggiore frequenza: in quello che i dizionari chiamano “vocabolario di base” le parole inglesi non superano lo 0,5%»1.
Se fino a poco fa il più grande bacino di neologismi era sicuramente costituito dai quotidiani delle grandi testate giornalistiche nazionali, che sono stati presi non a caso come campione nella gran parte dei lavori di lessicografia degli ultimi decenni, in epoca più recente la situazione appare leggermente modificata e le prime attestazioni delle parole compaiono sulle ‘bacheche’ di social network quali: Twitter, Facebook o Instagram, a cui si devono vere e proprie mode linguistiche che diventano tormentoni in un batter d’occhio e che solo dopo passano alle pagine dei quotidiani e, in alcuni casi, addirittura nei dizionari.
Vedremo nei prossimi articoli qualcuna di queste parole nate negli ultimi anni e di gran moda fra i parlanti, per ora vi basti un assaggio con qualche notizia sul termine whatsappare.
Quanto spesso ci capita di sentire qualcuno pronunciare la frase “Mi whatsappi dopo?” oppure “Ieri abbiamo whatsappato fino alle tre!”, la parola, che ricalca l’espressione inglese what’s up? (che succede?), si riferisce alla comunicazione attraverso WhatsApp, un’applicazione di messaggistica istantanea, disponibile per gli smartphone, che consente lo scambio di messaggi testuali e multimediali tra gli utenti.
Questa parola resta ancora legata ad usi estemporanei, parlato e in rete, degli stessi utenti dell’applicazione e ai contesti a bassa formalità e può essere etichettata come un gergalismo di derivazione informatica; essa non si trova negli archivi online della “Repubblica” e del “Corriere della Sera” ma cercandola su Google si hanno 18.000 occorrenze, prevalentemente in forum, blog, wiki e nei webmagazine.
Nessun dizionario italiano, neanche lo Zanichelli, ha registrato la voce e essa non compare nemmeno nell’Oxford English Dictionary; l’unica risorsa lessicografica in cui è riportato è il sito Urban Dictionary, un dizionario inglese online di neologismi e slang compilato dagli utenti, il lemma è datato 2011.
Il motivo della sua grande diffusione è da ricercare nella percezione che hanno gli utenti di comunicare in un modo nuovo: il generico chattare appare ormai superato, whatsappare significa comunicare in tempo reale con molti utenti, a volte anche creando conversazioni di gruppo; condividendo testi, emoticon, immagini, suoni, messaggi vocali all’istante e in maniera quasi del tutto gratuita, servendosi unicamente del proprio smartphone.
Nike Francesca Del Quercio
1 Antonelli G., Comunque anche Leopardi diceva parolacce, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A, Milano, 2014 cit., pp. 134-135.