L’uomo e la macchina
La diffidenza nei confronti del diverso è una questione atavica, forse nata insieme all’uomo. Con l’automatismo, con il progredire di una società meccanizzata, il concetto di alieno, di estraneo, si è allargato: aliene sono state le macchine, che nella visione marxista della società alienano l’uomo da sé; e nemiche le stesse macchine che già con l’avvento della prima rivoluzione industriale erano state accusate dai proletari di causare disoccupazione e abbassamento dei salari causando ciò un ulteriore impoverimento delle loro situazioni economiche.
La macchina divenne poi un simbolo del prestigio sociale, della ricchezza economica della società, si pensi al taylorismo e al fordismo, alle larghe produzioni in serie che permettevano un abbassamento dei costi di produzione e di conseguenza dei prezzi all’acquirente, portando alla possibilità di acquistare beni materiali in larga misura. Ma ciò determinò ancora problemi. Giorgio Gaber ironizzava nella sua canzone Il tic sull’alienazione nel lavoro in catena di montaggio dell’operaio dal prodotto finito, il quale operaio – singolo anello della catena – finiva per tornare a casa con tic nervosi dovuti alla ripetitività del proprio lavoro. Ma nel corso del tempo l’automazione è andata avanti di pari passo con lo sviluppo delle conoscenze tecnologiche e dalle macchine immobili e che niente avevano a che fare con l’uomo, si sono create macchine che non solo interagiscono con l’uomo sul lavoro ma anche nella vita quotidiana, nella sfera privata dell’uomo.
Si sono create macchine capaci di riprodurre la fisionomia dell’uomo, ed è stato dato loro un nome psicoanaliticamente perturbante: umanoide; e gli umanoidi si sono, poi, suddivisi per genere: ginoidi e androidi. Sì, perturbante perché l’idea per l’uomo di avere a che fare con oggetti inanimati e per di più aventi fattezze avvicinabili a quelle umane genera turbamento nella psiche attribuendo capacità e facoltà umane a elementi che umani non sono. Ma nel momento in cui queste creazioni robotiche “vestite” da creature umane vengono sviluppate in maniera sempre più sofisticata avvicinandosi all’uomo, la sfera tra impossibile e possibile, finzione e realtà, va assottigliandosi e sorgono le suggestioni psichiche. Ecco il perturbante.
Un episodio della serie Ai confini della realtà mostrava una cosa simile. Il protagonista si ritrovava in un luogo deserto in compagnia di una ginoide; dopo l’iniziale diffidenza iniziò a familiarizzare con essa e quasi dimenticò che non era un’umana. E così attribuendole facoltà umane, se ne innamorò. Venuto il momento di lasciarla alcuni suoi compagni la disfecero mostrandogli ciò che in realtà essa fosse: una macchina. E ciò non perturba soltanto il protagonista, nella finzione scenica, ma anche lo spettatore nel suo inconscio.
Nel 1980 al programma Vent’anni al 2000, Rita Levi Montalcini in un’intervista spiegò come in una società automatizzata si arriva alla situazione in cui non è più l’uomo a regolare la macchina ma è l’uomo ad adattarsi alla macchina. L’uomo sembra sviluppare una particolare facoltà di calcolo, una particolare attitudine alla tecnica, al senso pratico, ma è il lato più propriamente umano ad esserne inficiato, a risentirne. Montalcini afferma che la macchina non ha una coscienza etica e morale e che è questo che l’uomo deve tener ben stretto, la capacità di giudicare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e non ciò che è più utile in termini di numeri e freddi calcoli. Accanto a una conoscenza scientifica, quindi, si pone l’accento della questione sulla necessità di una coscienza tipicamente umanistica che vede al lato più intimo dell’uomo. Al lato più umano.
Sembrerebbe quasi un paradosso, che in tempi di automatismi si sia sviluppata la psicoanalisi che mira a puntare l’attenzione sul sé più profondo e interno. Ma forse non è che l’effetto di una causa.
Roberta Attanasio