Lolita: scandalo e nevrosi.
Parigi, 1955. Lo scrittore russo Vladimir Nabokov pubblica, dopo due anni di rifiuti, la sua più famosa opera, Lolita.
Le case editrici alle quali l’autore si era rivolto, infatti, non avevano avuto giudizi particolarmente positivi: il suo romanzo era stato definito “nevrotico”, “improbabile”, “selvaggio”, “nauseante anche per un freudiano illuminato”.
Un romanzo destinato, chiaramente, al successo.
Non è un caso, tra l’altro, che solo l’anno seguente la pubblicazione Nabokov stesso scrisse una prefazione dal titolo Note su un libro chiamato Lolita nella quale illustra la travagliata genesi del romanzo, alla fine pubblicato con la prestigiosa casa editrice erotica Olympia Press.
La storia, ambientata in una piccola cittadina del New England, è effettivamente scomoda per chi ama dolcemente vivere all’ombra protettiva di mille e più tabù, ma non per questo lontana da una ipotetica realtà.
Il narratore è il protagonista, il professore di letteratura francese Humbert Humbert. Reduce da un matrimonio fallito e da un esaurimento nervoso, e trasferitosi nella piccola città di Ramsdale, Humbert affitta una stanza nella casa di Charlotte Haze, vedova, sperando di potersi finalmente dedicare alla scrittura. Naturalmente, sbagliando.
Charlotte ha infatti una figlia dodicenne, Dolores. La bambina, sorprendentemente attraente per la sua giovane età, maliziosa senza volerlo e spregiudicata con cognizione di causa, diventa ben presto la più grande e impossibile ossessione di Humbert, che, quarantenne, non riesce ad autoimporsi il controllo necessario alla immensa differenza d’età.
Intanto, Charlotte, innamoratasi di lui, senza accorgersi di niente si dichiara, e Humbert accetta di sposarla solo per rimanere al fianco di Lolita. Un giorno, però, Charlotte legge il diario del marito e ne scopre l’ossessione per sua figlia: sotto shock, minaccia di esporlo allo scandalo pubblico e progetta di fuggire con Dolores.
A questo punto, però, il destino, beffardo, deciderà di mischiare le carte a favore di Humbert, e una serie di (s)fortunati eventi archivierà per sempre la figura di Charlotte e con lei il segreto di suo marito. Inizierà così un lungo, inquietante vagabondaggio di Humbert e Lola da un motel all’altro, in giro per gli Stati Uniti insieme.
Tra occhiate torve e biasimo, pettegolezzi e bisbigli, si stabilizzeranno per un periodo in una cittadina dove Lolita inizia a frequentare un collegio femminile nel quale, preparando una recita scolastica, attirerà l’attenzione del regista, tale Quilty.
Intanto il rapporto tra figliastra e patrigno diviene sempre più teso: Humbert è ogni giorno più possessivo e Lola ogni giorno più refrattaria.
Di nuovo, lasciandosi alle spalle voci scomode e piccoli scandali mai esplosi ma sempre sussurrati, i due partiranno. Nella serie di avventure che seguiranno – e che non vogliamo togliere al lettore il piacere di scoprire – il rapporto tra Lola e Humbert diventerà sempre più intimo e sempre più scabroso, sempre più segreto e sempre meno accettato e accettabile dalla società.
Giunti al finale sorprendente, tristissimo e amaro, il turbamento e la meraviglia del lettore sono garantiti.
La trama, volutamente esplicita, e la trattazione di temi delicati come la nevrosi, la pedofilia, la paranoia, non fanno di questo romanzo però il cliché che se ne volle rappresentare nella critica cinematografica e letteraria contemporanea e immediatamente successiva.
Nelle circa quattrocento pagine che lo compongono, né descrizioni né parole oscene trovano posto: il gioco sottile di Nabokov è un gioco di allusioni, di profonda indagine psicologica, di evoluzione interiore dei personaggi da una forma adolescenziale – anche quando imbrigliata nel corpo di un adulto – a una forma completamente conscia e consapevole del peso della vita; un salto, insomma, dall’infanzia alla estrema vecchiaia non biologico, ma spirituale, in un costante richiamo alle delicate dinamiche psichiche e ai traumi dei protagonisti dai protagonisti stessi ignorati.
Una lettura senza dubbio complicata. Complicata perché, ahinoi, ci pone di fronte a una inevitabile necessità: liberare la mente dai cliché, dai pregiudizi, dalle distinzioni nette tra colpe e alibi, dai tabù che la affollano, pena l’immediato abbandono della lettura.
Operazione difficile persino oggi. Niente da stupirsi, allora, se nemmeno un freudiano illuminato degli anni ’50 avrebbe potuto compierla.
Beatrice Morra