Sándor Márai: il lento bruciare del tempo

La complementarietà nutre la vita e le dà nascita e impulso.

Terra e cielo, acqua e fuoco, vita e morte. La lista potrebbe continuare infinita. Tutto quello che facciamo, diciamo e viviamo è nella sua profonda, più nascosta essenza, l’opposto e il complemento di se stesso.

Cosa c’entra tutto questo con un romanzo pubblicato nel lontano 1942 da uno scrittore ungherese allora semi-sconosciuto?

Sándor Márai pubblica Le Braci (titolo originale: “bruciare le candele fino in fondo”) all’età di 42 anni.

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Lo scrittore ungherese Sándor Márai.

La trama non è poi una vera trama, quanto piuttosto il dolce dispiegarsi di due vite vicinissime e parallele. L’impossibile incontrarsi e poi separarsi di due anime opposte e complementari.

Henrik è figlio di un ufficiale della Guardia Reale. Di bell’aspetto, valori molto forti e virili, famiglia ricchissima, passa l’adolescenza in una Vienna splendente di luci e lusso, tra una festa e un ricevimento, ammirato dalle donne e invidiato dagli uomini.

Konrad, figlio di un povero, decaduto barone che si leva di bocca il pane pur di farlo vivere e studiare nella capitale con tutti gli agi necessari, è introverso, silenzioso. Il suo animo si rintana nella solitudine di una stanza da letto, la sua sensibile delicatezza si rifugia tra le pagine di tanti libri e il suono melodioso e triste di un pianoforte.

Indole, inclinazioni, origini: non una di queste cose condividono i due uomini. Eppure, nel collegio militare dove si conoscono, a Vienna, diventano immediatamente, silenziosamente e indissolubilmente amici.

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Diversi, complementari. Alla base di un affetto immenso e puro ci sono una quantità altrettanto immensa e pura di incomprensioni. Non solo Henrik e Konrad non si capiscono, ma non si possono capire. Emblema di questa struggente differenza d’animo che finirà per logorare (o bruciare a fuoco lento…?) il loro legame è una scena sublime e bellissima.

Ospite a casa di Henrik, Konrad si siede al pianoforte insieme alla madre dell’amico e con lei suona a quattro mani, perso nell’emozione e dall’emozione tremante, mentre Henrik e suo padre se ne stanno distanti, seduti in poltrona, ascoltando il duetto educatamente, fuori da un mondo che non potranno mai capire e dentro a un altro che non sarà capito mai.

Gli anni passano, l’amicizia continua, nonostante tutto. La misteriosa eternità che sembra legare Henrik e Konrad da quando sono ragazzi li accompagna sinché non diventano adulti. Poi, qualcosa comincia a incrinarsi.

Il romanzo, che tanto romanzo non è, quanto piuttosto un lungo, struggente e calmo monologo di Henrik, inizia nel momento in cui arriva a quest’ultimo una lettera dell’amico. Dopo quarantuno anni i due si rincontrano a cena, nel castello di Henrik alle pendici dei Carpazi.

Qualcosa li ha allontanati per quasi mezzo secolo: il peso intollerabile delle cose capite, ma mai dette, il fantasma evanescente eppure presentissimo di Krisztina, la defunta moglie di Henrik, e il ricordo mortale di un episodio di caccia nei boschi circostanti al castello.

Il momento per Konrad di rispondere alle domande di Henrik è arrivato. Di dare ufficialità al suo riscatto segreto, alle motivazioni della sua fuga in Oriente per quarantuno lunghi anni.

Per Henrik, invece, giunge il momento della pace, dell’addio al rancore, il bisogno di sapere si quieta e lascia il posto a una intirizzita e stanca vecchiaia.

Márai ci accompagna, attraverso il suo piccolo immenso libro, in un viaggio etereo eppure doloroso tra le emozioni dell’uomo, i suoi vizi, i suoi stupidi valori illusori, e, seduti tutto il tempo davanti al camino dove Konrad e Henrik discorrono, stavolta per l’ultima volta, riesce a mostrarci la fragilità delle nostre convinzioni. E, soprattutto, quanto a volte anche la perfetta complementarietà possa complicarsi, e fallire, e crollare miseramente.

Intanto, tra le fiamme del camino, brucia fino in fondo il diario di Krisztina.

Beatrice Morra

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