Walt Whitman, poeta della vita
Tu, o lettore, fremi di vita e orgoglio e amore come anche io fremo
siano dunque per te i seguenti canti.(W. Whitman, Foglie d’erba, Tu lettore)
Walt Whitman (1819-1892) è uno dei primi poeti degli Stati Uniti d’America, e in quanto tale egli sente necessariamente il bisogno di dare voce a una nuova letteratura al neonato paese; Whitman, come altri prima e contemporaneamente a lui, sente il bisogno di fondare una letteratura che sia quindi identità di un paese. E come ogni nuova esperienza genera entusiasmo e speranza, così la cultura americana che andava formandosi alla fine del Settecento e soprattutto agli inizi dell’Ottocento era rivolta verso il futuro.
Nel tempo delle speranze ogni cittadino aveva un sogno, un sogno americano, dirà Martin Luther King nel 1963, e questo sogno è un canto di gioia, un canto di vita. E in questo modo possono connotarsi i versi che Whitman scrisse nella sua raccolta Foglie d’erba, edita nel 1855 e ampliata per tutto il corso della vita. Quelli di Foglie d’erba non sono però versi che si esauriscono nel contesto storico in cui nascono; essi sono quanto mai attuali in un’epoca come quella contemporanea forse rassegnata per le catastrofi vecchie e nuove e insegnano, in qualunque momento, ad accettare, vivere e migliorare la realtà.
Il critico e studioso statunitense Harold Bloom, mettendo a confronto il poeta Whitman con colui che egli considerò il suo maestro, il letterato Ralph Waldo Emerson (1803-1882), così scrive in un suo intervento:
Come il suo maestro, Emerson, Whitman profetizzò una religione americana che fosse postcristiana, ma mentre Emerson osò suggerire che la crocefissione fosse una sconfitta e gli americani chiedessero vittoria, Whitman si spingeva oltre, suggerendo che egli stesso soddisfaceva tale richiesta. (H. Bloom, Introduction, in AA. VV., Modern Critical Views. Walt Whitman, 1985).
Posto ciò, prima di progredire in questa piccola riflessione, è opportuno storicizzare la figura dei due autori, che lo stesso Bloom considera come cruciali della letteratura americana, per comprendere meglio il rapporto che intercorre tra i due e i loro pensieri.
Anzitutto, gli anni di Emerson e Whitman sono quelli di un continente che solo da pochi decenni ha trovato la propria indipendenza (ottenuta di fatto con la Guerra di indipendenza americana conclusasi nel 1883). Pertanto era forte il bisogno della formazione di una cultura diversa da quella, per così dire, imposta dal dominatore britannico. Anche Emerson affrontò questo problema nel suo discorso Lo studioso americano del 1837. Non pare quindi errato pensare che ingegni come Emerson potessero puntare quasi a una nuova religione che fosse al di là di quella che l’Europa importò in America a partire dal lontano 1492.
La religione cristiana, sebbene avviata da un uomo destinato a soccombere sotto i colpi della sorte, e che tuttavia manifestava una grandissima forza di spirito, era per Emerson una religione portatrice di una grave sconfitta per l’umanità cioè, come ricorda Bloom, la crocefissione di Gesù Cristo. Secondo Emerson, è possibile affermare che il Nuovo Continente, oltre che di una nuova cultura, aveva bisogno di una nuova religione che facesse si che gli uomini potessero non più piangere una grande sconfitta, ma fregiarsi di una grande vittoria. Così Emerson, a proposito della Crocefissione, scrive nel suo Diario:
A oggi, questa grande Sconfitta rimane il più importante evento di cui disponiamo. Ma colui che verrà dovrà fare di meglio. La mente richiede un’esibizione del carattere molto più alta, che si offra ai sensi come all’anima; un successo per i sensi come per l’anima. Quella fu una grande Sconfitta; noi chiediamo una grande Vittoria […] .
Ma chi è «colui che verrà», cosa deve fare per portare la vittoria tra gli uomini? E cos’è la vittoria? Bisogna che qualcuno porti nell’uomo una coscienza nuova che permetta di comprendere le infinite sfaccettature della vita umana, e per fare ciò «colui che verrà» deve essere in grado di comprendere l’anima della natura delle cose che circonda l’uomo ed essere in grado, quasi simbolicamente, di spiegarla ai suoi simili e fornire la testimonianza del panteismo della vita arricchendo l’umanità. Costui è il poeta, e per Emerson il poeta è «colui che dà i nomi e rappresenta la bellezza» (R. W. Emerson, Il poeta, 1844). Il poeta sembra, così, essere considerato come il vate degli esseri umani in quanto privilegiato perché in grado di comprendere l’essenza delle cose; inoltre ogni tempo ha il suo poeta che ha il compito di rivelare (termine religiosamente inteso) i sistemi che sottendono ai mutamenti dei periodi storici. Scrive, infatti, Emerson:
[…] l’esperienza di ogni epoca richiede una nuova confessione e il mondo sembra sempre in attesa del suo poeta. (R. W. Emerson, Il poeta, 1844).
Se si intende, pertanto, la parola “confessione” come sinonimo di “religione”, quindi come “confessione di fede”, si vede subito come Emerson intenda che quel «colui che verrà» deve essere necessariamente il poeta, e il poeta Walt Whitman, come afferma Bloom, si pone come il realizzatore di quella nuova religione postcristiana suggerita da Emerson:
Che io possa dimenticare il dileggio e gli insulti.
Che io possa dimenticare le lacrime goccianti e i colpi dei magli e dei martelli!
Che io possa guardare con occhi distaccati la mia crocefissione e la corona sanguinante.
Io mi ricordo, adesso, riprendo la frazione prolungata,
la tomba di pietra moltiplica ciò che è stato affidato a lei e a tutte le altre,
cadaveri risorgono, piaghe guariscono, gli appigli mi vengono meno.
Mi faccio avanti, colmo di celeste potenza […](W. Whitman, Foglie d’erba, Il canto di me stesso)
La nuova religione diviene quindi nuova coscienza e consapevolezza dell’uomo; il vate illuminato di luce celeste è colui che per primo si proietta anima e corpo nella più profonda e, necessariamente, primordiale natura umana. Non potrebbe essere diversamente poiché altrimenti il poeta, non affondandosi nei primi naturali istinti umani per poi ripercorrerli e superarsi ogni volta autoaffermandosi, non potrebbe essere il punto di riferimento. Così scrive, infatti, Whitman:
Walt Whitman, un cosmo, di Manhattan il figlio,
turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea(W. Whitman, Foglie d’erba, Il canto di me stesso)
E cantando il perenne movimento della vita che si agita in se stesso, egli canta il prototipo di essere umano chiamato a vivere nel Nuovo Mondo da poco fondato:
la Femmina ugualmente con il Maschio io canto.
La Vita immensa in passione, impulso, potenza,
piena di gioia, per le azioni più libere che si compiono sotto la legge divina,
l’Uomo Moderno io canto.(W. Whitman, Foglie d’erba, L’individuo io canto).
Un uomo nuovo è quindi oggetto dei canti di Whitman e una nuova ideologia. Questo può legarsi a quel discorso fatto per Emerson riguardo la creazione di una nuova cultura. Per Walt Whitman le antiche Muse che hanno popolato l’arte del Vecchio Continente devono lasciare i loro monti già troppo spesso battuti e volgere la rotta di un nuovo viaggio verso le sterminate terre tutte da scoprire dell’America.
Vieni Musa e migra dalla Grecia e dalla Ionia,
[…]
affiggi “Trasferito” o “Da affittare” sulle rocce del tuo Parnaso innevato,
[…]
e sappi che un migliore, fresco, più operoso emisfero, un vasto dominiointentato ti attende, ti reclama.
(W. Whitman, Foglie d’erba, Canto dell’Esposizione).
Questa affermazione potrebbe suonare un po’ pretenziosa alle orecchie di un europeo cosciente e fiero delle proprie radici culturali, tuttavia immedesimandosi nel pensiero di Whitman tali versi non sarebbero potuti uscire diversamente dalla penna, si potrebbe dire, di un pioniere di una nuova cultura come lo fu lui. Egli, diversamente da poemi quali l’Iliade e l’Odissea di Omero, non cantava di grandi guerre che affondano la loro verità nella leggenda; Whitman rendeva fulcro delle sue poesie “guerre” più vicine a lui nel tempo al fine di illuminare la via dell’uomo conciliando il corpo e l’anima. Scrive così infatti Walt Whitman:
Mentre meditavo in silenzio,
ritornando sui miei poemi, riflettendo lungamente su di essi
venne a me un Fantasma dal sembiante sfiduciato e diffidente
di terribile bellezza, età, e potenza,
il genio dei poeti delle terre antiche
[…]
e con voce minacciosa, Cosa tu canti?, egli disse,
Non sai che non esiste che un solo tema immortale per i bardi?
E che questo tema è la Guerra, la fortuna delle battaglie,
il formare dei perfetti soldati.
Così sia, io risposi,
anche io, Ombra tanto altera, canto la guerra, una più lunga e grande delle altre,
[…]
… e il campo di battaglia è il mondo,
per la vita e la morte, per il Corpo e l’Anima immortale,
guarda, io anche sono venuto, a cantare il canto delle battaglie,
e sopra tutto formo valorosi soldati.(W. Whitman, Foglie d’erba, Mentre meditavo in silenzio).
Questo poderoso e travolgente canto della vita non si affievolisce neanche quando l’uomo moderno che egli canta nelle sue poesie portò alla Guerra di secessione americana (1861-1865). Nei versi scaturiti da questo evento che segnò molto la persona del poeta (si veda, a tal proposito, la famosa e commovente poesia incentrata sulla figura di Abraham Lincon, O Capitano! Mio Capitano!), infatti è sempre predominante il pensiero per cui l’uomo, nonostante la sporca guerra combattuta, oltre tutto, contro i propri fratelli concittadini, sia intercalato fino in fondo nei casi umani. Nonostante ciò l’uomo vive, combatte e muore per la vita e la libertà, e proprio grazie a questa totale dedizione alla vita stessa che l’eco dello spirito vivrà imperituro:
Questa polvere fu una volta un uomo,
gentile, schietto, giusto e risoluto, sotto la cui cauta mano,
contro il crimine più abbietto che la storia abbia mai conosciuto in qualsiasi terra o epoca,
fu salvata l’Unione di questi Stati.(W. Whitman, Foglie d’erba, Questa polvere fu una volta un uomo).
Ma al giorno d’oggi dei canti di Walt Whitman cosa è rimasto? Quell’entusiasmo che caratterizzava la speranza di costituire un futuro in cui poter vivere la vita in libertà e pace è andato forse scemando a causa delle mutate condizioni di vita. Ai tempi di Walt Whitman si guardava appunto al futuro come a qualcosa che aveva in serbo per l’uomo qualcosa di magnifico, qualcosa di mai visto prima in cui poter realizzare i propri sogni. Ma il secolo del Novecento è stato il secolo delle guerre e quella felicita che ogni uomo ha il diritto perseguire (come fu scritto nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776) ha assunto a mano a mano i caratteri più economici che sociali; non è più la felicità di tutti, ma la felicità del singolo sopra quella di tutti. È per mantenere questa parvenza di felicità, che diventa autoinganno e ostentazione, che si ricade nell’apatia. Così quei canti di Whitman che sembrano essere destinati a orecchie soltanto americane, assumono un valore universale proponendosi di dare così l’esempio per poter vivere a pieno la vita nella coerenza e nella giustizia, nella gioia e nella libertà.
Si dovrebbe pertanto prestare con più attenzione orecchio alle voci del passato dalle quali è sempre possibile trarre i più utili consigli, e il consiglio e l’esortazione potente di Walt Whitman è quella di impegnarsi ad agire per il bene del presente e del futuro. Sembra giusto perciò riportare per intero una delle più belle poesie di Walt Whitman resa ancor più celebre dal film del 1989, L’attimo fuggente interpretato dell’indimenticabile Robin Williams (1951-2014), film la cui colonna portante è proprio un’esortazione a liberarsi da ogni vincolo e perseguire la libertà e la felicità nella propria vita.
Ah me! Ah vita! di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei di infedeli, di città empie di stolti,
del mio perpetuo rimproverare me stesso (perché chi è più stolto di me, echi più di me infedele?)
Di occhi che invano bramano la luce, di scopi terreni, della battaglia sempre rinnovata
dei poveri risultati di tutti, delle arrancanti e misere folle che io vedo intorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, con gli altri me confuso,
la domanda ricorrente, ahimé, così triste – Cosa di buono in tutto questo, Ah me! Ah vita?Risposta
Che tu sei qui – che la vita esiste e l’identità,
che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un verso.(W. Whitman, Foglie d’erba, Ah me! Ah vita!).
Salvatore Di Marzo