L’Intervista: Marco Marsullo
Napoletano, classe 1985, Marco Marsullo è una delle voci fresche della narrativa italiana. Uno di quei giovani di talento che ha avuto il coraggio di crederci e di fare una scelta diversa, di rincorrere la passione viscerale per qualcosa che ti facesse sentire vivo e in pace con te stesso. Marco ha ascoltato il cuore che gli diceva di scrivere, di mettere su carta la sua vita, le sue emozioni, e il risultato è stato un contratto editoriale arrivato nel 2013 con Einaudi, tre romanzi pubblicati (di cui uno, I miei genitori non hanno figli, nelle librerie da qualche settimana), un impegno come editorialista per La Gazzetta Dello Sport e qualche apparizione in tv a Quelli che il Calcio. Tutto grazie a un manoscritto inviato alla redazione di una casa editrice. Marco Marsullo è una bella storia di successo, di umiltà e di speranza.
Sul suo blog, l’autore afferma che I miei genitori non hanno figli è l’unica cosa in parte autobiografica che abbia scritto e, quasi sicuramente, scriverà in tutta la sua vita. Racconta quanto sia divertente e faticoso doversi prendere cura di due genitori separati, soprattutto quando hai diciott’anni e i tuoi genitori pretendono tu sappia già scegliere cos’è meglio per la tua vita, anche se la loro non sembra esattamente quella che avevano immaginato. E allora li osservi muoversi in quel microcosmo fatto di amicizie che possono tornare utili, di colleghi che hanno solo figli geniali – al contrario di te – di solitarie battute di caccia in Lettonia e turn over di fidanzati, e quasi ti arrendi all’idea che sarai proprio tu il loro ennesimo fallimento.
“Ci sono figli di colleghi di mia mamma piú bravi di me in qualsiasi cosa, piú educati, meglio pettinati, meglio vestiti, piú svegli, affettuosi. Ci sono figli di colleghi di mia mamma che, forse, sono anche piú figli di mia mamma rispetto a me”.
D: Scrivere di calcio è difficile, soprattutto in letteratura. La gente ha una propria visione del sistema, idee maturate in anni di chiacchiere da bar, approfondimenti della domenica sera e ginocchia sbucciate sull’asfalto sotto casa. Atletico Minaccia Football Club (Einaudi) è il romanzo con cui sei arrivato alla grande editoria e parla di calcio. Mentre da una parte sembra essersi finalmente estinta la moda delle biografie dei calciatori (eh sì, non ce la facevo proprio a vedere Ibrahimovic sugli scaffali delle librerie), tu hai appassionato e intrattenuto i lettori raccontando con ironia la storia di Vanni Cascione, uno strampalato allenatore di provincia con la fissazione per Mourinho, e della sua squadra, ovviamente. Quanto sei cambiato da Atletico Minaccia Football Club?
R: Sono cambiato perché, allora, quando uscì Atletico Minaccia Football Club con Einaudi Stile Libero, c’eravamo solo io e lui. Era il mio primo romanzo, primo libro importante, non avevo alle spalle altre storie, altri personaggi, altri riferimenti per me stesso, per chiunque mi leggesse e anche per la critica. Era più semplice. È cambiata la mole di lavoro che ho messo nei muscoli e nel cuore in questi anni, che ha cambiato me, i miei personaggi, quelli recenti e quelli futuri. Sono un ragazzo di trent’anni, mentre Atletico lo avevo scritto a ventiquattro (anche se poi uscito a ventisette). Sono cambiato come ragazzo, crescendo, avvicinandomi sempre più alla forma dell’uomo. La metamorfosi come autore è, credo, simbiotica. Più cose vivi, più cose osservi, più posti del mondo guardi, più ampie e forti saranno le tue storie.
D: Il tuo impegno da editorialista per la Gazzetta dello Sport ti porta ad avere un contatto costante con il mondo del calcio. Sport che è stato martoriato dagli scandali delle scommesse, corruzione e altra immondizia. In Atletico Minaccia Football Club evidenzi la semplicità di una squadra che sembra davvero giocare per divertirsi: secondo te qual è il vero significato del “giocare a pallone” ?
R: Quando mi viene posta una domanda del genere, io rispondo citando Zeman, che un giorno disse che finché ci saranno ragazzini a correre nelle piazze dietro un pallone il calcio non morirà mai. Sembra tremendamente banale, ma è il motivo per cui i calciatori, quelli forti e famosi, guadagnano tanti soldi, e tutto il mondo guarda le partite, in tivù o allo stadio. Il calcio è uno stadio della crescita degli esseri umani, giocoforza ci convivi e te ne innamori nella stragrande maggioranza dei casi. Questo è per me il vero significato del giocare a pallone: perdersi in una cosa in cui si perdono tutti, ma ognuno a modo proprio.
D: Nel 2014, sempre con Einaudi, sei tornato in libreria con L’audace colpo dei quattro di Rete Maria che sfuggirono alle Miserabili Monache, l’avventura esilarante di quattro anziani che evadono da una casa di riposo, e, da qualche settimana, con I miei genitori non hanno figli, un romanzo che parla di legami familiari e della fragilità del mondo degli adulti. In tutte le tue storie, il linguaggio che utilizzi è fresco, la lettura scorrevole e contraddistinta da un buon umorismo. Qual è il segreto per appassionare i lettori?
R: Per adesso, con questi primi tre romanzi con Einaudi Stile Libero, ho lavorato in una direzione molto spontanea, con storie che mi venivano fuori con forza dalla pancia, senza stare a pensarci troppo. Il linguaggio è molto simile al mio, a quello di una generazione intera probabilmente, tenendo sempre conto che dietro c’è un forte lavoro sulla lingua, che parte dalle letture e dall’ascolto del mondo. Il segreto non lo so, forse potrebbe essere l’onestà del racconto, di quante corde comuni riesci a toccare con le tue storie. Quando io scrivo, l’unico pensiero che si avvicina a quello della storia stessa, è per chi mi leggerà. Mi sento in dovere di andare dritto al punto, senza giri di parole.
D: Lettori. Dietro ogni romanzo c’è un grande lavoro, ore di scrittura e di riscrittura finalizzate a raccontare una storia che apra una breccia nel cuore e nella simpatia dei lettori. Dal tuo primo romanzo, pubblicato con una piccola casa editrice abruzzese, il numero di persone che conosce i tuoi libri è cresciuto. Ti sei mai chiesto che tipo è il tuo lettore medio? E quanto conta per te il marketing nella scelta dei temi da affrontare nella scrittura?
R: Non saprei proprio chi potrebbe essere il mio lettore medio perché di lettori, per fortuna, ne ho avuti e ne ho di tipi molto diversi. Ricevo mail da signore sulla cinquantina e da ragazzi di vent’anni; donne, uomini, mamme, figli, il pubblico che ho avuto la fortuna di raggiungere, anche al forte marchio di Einaudi, è stato molto disparato. Il marketing non credo conti ai fini della scrittura, se mai a quello delle vendite. I miei genitori non hanno figli è sicuramente catalogabile, pur restando un romanzo, in un filone narrativo che negli ultimi anni ha popolato le librerie, quello dei libri “generazionali”. Io non volevo fare un lavoro sterile di iscrizione a questo albo, volevo provare a fare di più: dare dignità e forza a una storia in cui tutti o quasi i figli e i genitori si potessero intravedere per grandi, o piccole, linee. Un’ambizione grande che però mi ha molto stimolato.
D: L’editoria italiana è un campo difficile: tra fusioni, monopoli e piccoli editori che annaspano per non annegare, ci sono più libri scritti che letti. A questo punto dell’intervista dovrei chiederti i famosi consigli per gli autori emergenti, è una prassi consolidata nei blog culturali. Dato però che spesso gli autori emergenti hanno la presunzione di mettersi a scrivere senza leggere, fai una buona azione: suggerisci loro un romanzo che ti ha colpito.
R: “La strada” di Cormac McCarthy. Parlando di autori emergenti, o esordienti, o persone che hanno uno o più manoscritti nel cassetto, mi sembra perfetto. È una lezione di scrittura, con una trama scarna, livida, poverissima, a parlare due soli personaggi, che però grazie a una potenza narrativa indescrivibile e una trovata semplicissima, ti tiene incollato fino all’ultima pagina in uno stato d’ansia pulsante. Invidia. Semplicemente perfetto.
Antonio Lanzetta