Nella letteratura, nella buona letteratura, solitamente nulla è dato al caso: gli elementi si trovano in un punto del testo perché sembra che solo lì possano avere il senso proprio. Ciò accade per la caratterizzazione dei personaggi, per la scelta del linguaggio, del vestiario, dei luoghi, degli arredi ecc. Tutto ha un senso, e tutto può accadere in funzione a questi elementi.
Balzac, per citare un esempio, circondava di edifici reali i suoi palazzi immaginari così da poter offrire una più alta percezione del reale e renderli maggiormente riconoscibili ai suoi lettori; che al tempo si supponevano esclusivamente parigini, quindi più adatti a recepire questo meccanismo.
Cognetti si pone, di fronte alle case della letteratura, come una sorta di Wakefield di Hawthorne. Le osserva dall’esterno e prova a comprenderne il significato.
Il racconto di Hawthorne è del 1837, mette in scena la storia di un uomo comune che, un giorno, dice alla moglie di dover partire per un lungo viaggio di lavoro. L’uomo prepara i bagagli, saluta ed esce di casa. Poi però, piuttosto che recarsi alla diligenza, si dirige verso il palazzo di fronte dove, messosi a suo agio, comincia a osservare la propria sparizione. Passa così vent’anni a osservare com’è la propria vita senza se stessi.
Cognetti si dichiara ossessionato, in quanto lettore e scrittore, dai narratori “domestici” (Hawthorne, Melville, Hemingway, Carver, Cheever, Poe) e dall’esterno, immaginandosi come quei narratologi ottocenteschi con l’abitudine di smontare il testo in ogni suo meccanismo, proprio come un orologio, elenca una serie di case e situazioni domestiche realizzabili nella narrazione e il loro possibile significato.
La lista che ne viene fuori è curiosa, fertile di stimoli per chi scrive e stuzzicante per l’occhio e l’orecchio del lettore attento.
Quante cose si possono fare con una casa in un racconto?
Regalare una casa a un figlio: dargli una missione.
(Ri)costruire una casa: (ri)fondare una dinastia.
Abitare una casa in affitto: non potere (o volere) mettere radici.
Scappare di casa: lasciare tutto e cambiare vita.
Spiare casa propria da fuori: immaginare la propria morte.
Tornare a casa dopo molti anni: fare i conti col passato.
Chiudersi in casa: essere ammalati o depressi.
Occupare la casa di un altro: usurpargli l’identità.
Abitare in una casa in prestito: vivere nell’incertezza.
Essere sfrattati di casa: piombare nello smarrimento.
Un ospite in casa d’altri: un testimone.
Una casa pericolante: la paura.
Una casa infestata dai fantasmi: una colpa del passato.
Una casa in costruzione: la nascita.
Una casa diroccata: la malattia, la solitudine.
Una casa illuminata nella notte: la felicità domestica.
Una casa disabitata o distrutta: la morte.
Arrivo alla personale conclusione che sotto tutti questi aspetti la casa finisce con l’essere non soltanto difesa da agenti atmosferici o rifugio per uno o più nuclei familiari, ma anche espressione di una condizione emotiva, psichica, umana.
La casa va a costituire le fondamenta della vita psichica di un individuo e “sentirsi a casa” può indicare l’integrità psicologica del personaggio; così come l’incontro tra opposti (i diversi inquilini) e il riempimento degli ambienti (l’arredamento) diventano lo spazio dove la soggettività si sviluppa e opera.
Esempi di questo tipo li troviamo nel realismo di Aliain Robbe-Grillet, a focalizzazione esterna, tutto incentrato sugli oggetti che circondano la quotidianità dei suoi personaggi. E non credo sia un caso che il Raskol’nikov di Dostoevskij si trovi a suo agio, nei deliri post-delitto, soltanto quando viene lasciato solo in casa; o che i romanzi di formazione trovino la loro forza nei giovanili conflitti domestici dei protagonisti; o che Ulisse si ritrovi in pace solo dopo aver raggiunto, e riconquistato, l’agognata Itaca.
Potremmo dire che in letteratura la casa sia sempre infestata. Non sono solo i fantasmi delle storie del terrore a occuparla, ma i personaggi e i loro timori, complessi, paure, progetti, gioie e ambizioni.
Le case della letteratura sono tutte infestate perché portano i segni funesti delle storie che raccontano.
Antonio Esposito
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