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Izrail’ Metter, fra memoria e speranza

Quando la vecchia si avviò verso la porta, il capo la seguì con gli occhi e avrebbe voluto aggiungere qualche parola; sapeva come parlare con i sottoposti, con i superiori, con i detenuti, con i compagni di sbronza, ma le parole adatte, che all’improvviso gli era venuto voglia di dire alla vecchia, non riuscì proprio a trovarle.
La madre [Per non dimenticare. Tre racconti, Izrael Metter, Il melangolo, 1993]

Izrail’ Metter (1909-1994) non è un autore particolarmente fortunato, in Italia. Anzi, potremmo dire che è quasi del tutto sconosciuto. A fine anni novanta, Einaudi pubblicò il volume Ritratto di un secolo, che raccoglieva gran parte della produzione di Metter, ma oggi quest’edizione non è più in commercio. Ciò che resta è la sua ultima opera, Genealogia, sempre per Einaudi, e dei racconti pubblicati in due volumi da Il melangolo: Muchtar e Per non dimenticare. Tre racconti.

Senza dubbio la poca fama che Metter ha all’estero è dovuta anche alla sua vita travagliata e al suo rapporto con il potere sovietico. Ebreo russo, Metter rifiutò più volte di collaborare con la polizia politica sovietica – il che comportava spiare amici scrittori – e fu l’unico ad applaudire Michail Zoscenko al termine di un’autodifesa pronunciata nell’aula dell’Unione degli scrittori a Leningrado. Quello stesso Zoscenko che la polizia politica voleva fosse denunciato da Metter.

Ma Izrail’ Metter era ebreo, e negli anni cinquanta in Russia si riaccese un forte antisemitismo. Inoltre non si prodigò mai a scrivere opere su Stalin. Il risultato di questa condotta fu il divieto per lungo tempo di pubblicare con qualunque casa editrice russa, e al contempo il divieto di espatriare, anche solo nei paesi dell’Unione Sovietica.

Non c’è dubbio che Metter fosse profondamente colpito dalla società in cui viveva, a tutti i livelli. I suoi racconti sono testimonianze romanzate di esperienze realmente accadute. Così due racconti, La madre e Rjabov e Kozin, nascono da storie narrate a Metter in prima persona da chi le aveva vissute.

Queste due esperienze sono accomunate dalla speranza. Una madre, svilita e offesa da uno dei suoi figli, con cui vive, attende con utopistica fede l’uscita dal carcere dell’altro figlio, quello buono, finito dentro per una rissa. L’esperienza del viaggio per andarlo a trovare in carcere sarà un continuo affaticarsi verso la meta, uno spingere la roccia su per la montagna. Roccia che, come nel mito di Sisifo, non potrà che ricadere, riportando tutto alla situazione di partenza.

E così il secondo racconto, uno scontro psicologico fra due uomini, uno scontro che avviene per un motivo non chiaro a entrambi, e che per questo non potrà che essere vano. La voglia di sapere, di capire, ma al contempo la consapevolezza che tutto ciò che è fatto è fatto, e che non ci potrà essere nessun guadagno da quell’incontro.

Il terzo racconto di Per non dimenticare si chiama Il regalo. Si tratta qui di rievocazione – sempre romanzate e trasposte – di esperienze personali. Un uomo perde la moglie, ballerina (come la moglie di Metter) e vuole donare i suoi vestiti di scena a un teatro. Ma la burocrazia è talmente fitta e contorta che trasforma la donazione spassionata in un problema, in un qualcosa di vergognoso, di avvilente.

Come questi racconti, profondamente inseriti sul territorio russo e nella sua società, anche Muchtar è la rielaborazione di un’esperienza, che vedrà la luce nel 1960. Metter per un lungo periodo è sceso in pattuglia con la milizia e la squadra cinofila. Il Muchtar del titolo è il cane protagonista del lungo racconto, venduto alla milizia e qui addestrato per essere un cane poliziotto. Muchtar è il simbolo – nella sua intera esistenza – della società russa dell’epoca vista da Metter. Una società profondamente sbagliata, in cui i deboli sono lasciati indietro, abbandonati, in cui ognuno è pronto a far le scarpe al prossimo per un minimo guadagno, in cui un uomo viene ucciso perché si possa rubare della lana.

È uno sguardo cupo e realista, ma ancora una volta si fa strada una speranza. E in Muchtar non è chiaro se Sisifo riuscirà davvero a concludere la sua condanna. Forse sì, forse no. Intanto, pare che questa volta sia riuscito a salire un po’ più in alto.

E all’improvviso [Glazycev] capì che cosa l’aveva preso non appena era tornato a casa, quel giorno. La gente può vivere bene. Può farlo. Deve farlo. Spariranno pure un giorno o l’altro dalla terra le canaglie. Vovka [suo figlio] ce la farà a vedere questo. Ma il guardiano del magazzino che quel giorno era stato ucciso, lui no, non ce l’avrebbe fatta.
Muchtar [Izrael Metter, Il melangolo, 1995]

Maurizio Vicedomini

Maurizio Vicedomini

Maurizio Vicedomini è capoeditor per la Marotta&Cafiero editori. Ha acquistato diritti di pubblicazione in tutto il mondo ed è pioniere nello sviluppo di nuove forme di impaginazione libraria in Italia. Ha fondato la rivista culturale Grado Zero, sulle cui pagine sono apparsi racconti di grandi autori italiani e internazionali. È autore di libri di narrativa e critica letteraria. Collabora con la Scugnizzeria, la prima libreria di Scampia.

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