Giovanni Verga pubblicò il Mastro-don Gesualdo sulla rivista Nuova Antologia nel 1889. Tuttavia, esso fu il prodotto di una lunghissima gestazione durata quasi nove anni: la prima volta che lo scrittore siciliano mise mano alla storia di Gesualdo Motta era stata il 1881.
Secondo romanzo del cosiddetto (e incompiuto) Ciclo dei Vinti, non eccessivamente lungo, essenziale e splendido, racconta la vita di un uomo di Vizzini, in Sicilia.
Verga fa iniziare la storia di Gesualdo quando ha già vissuto parecchia vita, e che vita!
Egli stesso la racconta, attraverso la tecnica dell’indiretto libero, in una serie sparsa e vaga di accorti flashback:
“Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati di giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto… gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre a Donferrante! Quante volte l’aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per la via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma… erano dieci o didici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! – Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!… – Più colpi di funicella che pane! – ”.
Gesualdo è cresciuto, ha lavorato, ha sofferto, ha portato sulle spalle pietre e botte, ed è arrivato a possedere roba: innanzitutto, terreni; poi magazzini, fornaci, soldi. E il peso sulle sue spalle è cambiato. Meno concreto, ma più asfissiante. All’appellativo di “Mastro” raggiunto con sudore e fatica, adesso, con perfida ironia, si è aggiunto quello di “Don”.
Disprezzato dai nobili perché parvenu, rinnegato dal popolo come un traditore, Gesualdo tenterà il disperato attacco e la disperata difesa di chi è circondato: colpire ogni lato, proteggersi da ogni lato. Sposa Bianca Trao, nobile decaduta: a lei conviene perché Gesualdo è ricco, e perché ha bisogno di un matrimonio riparatore; a lui conviene per le parentele che acquisirebbe. Ma l’unione sarà destinata all’infelicità: Bianca mai cesserà di disprezzare le origini del marito, sino ad avere una repulsione quasi fisica per lui.
Allora, Gesualdo deciderà di unirsi alla Carboneria, perché, in fondo, si sentirà sempre più Mastro che Don, nonostante i suoi infiniti possedimenti. Il vivace rigurgito di un orgoglio soffocato lo convince a intraprendere l’ennesima risoluzione che si rivelerà fallimentare, e ancora una volta non riuscirà a trovare una precisa collocazione sociale e identitaria.
Sua figlia Isabella crescerà avendo tutto ciò che lui non ha mai avuto, eppure disprezzerà il padre e sarà disprezzata in quanto figlia sua; con l’odio cristallizzato in eterno negli occhi di Isabella si distruggerà definitivamente quella speranza confusa di Gesualdo di costruire una rete solida di legami familiari. La roba, il suo possesso, impediscono anche quello.
Dalla dimensione corale dei Malavoglia, primo romanzo del Ciclo, si passa a una dimensione completamente individuale: Gesualdo e i suoi pensieri, le sue preoccupazioni, le sue ansie, le amarezze di un riscatto sociale che non riesce a vincere, di uno scacco dato ai “pezzi grossi” che prima o poi gli si ritorcerà contro e lo ucciderà nell’indifferenza e nell’odio.
Tutto questo, però, è drasticamente e profondamente inserito in un contesto che, comunque, rimane corale, sociale: tutta la serie di personaggi che interagiscono con Gesualdo, pur non avendo l’attenzione diretta dell’autore, hanno una valenza specifica e assolutamente necessaria nella storia in cui sono inseriti.
Con la maestria del grande artista, Verga delinea una realtà complicata in tutte le sue sfumature penosamente umane, e, fedele alla sua concezione della letteratura, fotografa con spietata fedeltà tutte le debolezze, le vanità e la fragilità dei meccanismi psicologici e sociali che mutano faccia, espressione e intensità, ma che, nella loro amara essenza, viaggiano nel tempo da Gesualdo a noi.
Beatrice Morra
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