Napoletanità vs Napoletaneria
Napoletanità vuol dire fantasia, passione, intelligenza, cultura, amore per le proprie tradizioni; al contrario Napoletaneria significa oleografia, banalità, volgarità, sciatteria ed esaltazione dell’ignoranza.
Due termini dicotomici che spesso vengono confusi da chi non conosce Napoli e i napoletani. Napoli nei secoli è stata il crocevia di traffici e commerci, ma anche di culture diverse, e il carattere dei napoletani deriva dal contatto con i tanti popoli che hanno soggiornato all’ombra del Vesuvio. La parlata vivace, la mimica festosa, il gesticolare incessante, il modo chiassoso di divertirsi, il grande calore umano sono pregi e non difetti, ed irridere queste caratteristiche, significa non voler accettare l’essenza della napoletanità.
Si tende da parte dei mass media a ingigantire difetti e storture di questa sfortunata città, che pur rappresentano una mortificante realtà, ma si dimentica con troppa facilità il suo patrimonio culturale, la laboriosità di gran parte della sua gente, si trascura la fantasia e la genialità tanto diffuse e la filosofia di vita del napoletano, che rappresentano un consistente patrimonio da difendere e da valorizzare. Lo scrittore Raffaele La Capria ha elaborato una sua teoria per mettere d’accordo la Napoli della borghesia colta ed europea a quella della camorra sanguinaria e selvaggia, e ha inventato negli ultimi due secoli la napoletanità, un modo di essere napoletani comune a entrambi, accettabile da entrambi: il napoletano come lingua comune, le superstizioni, le canzoni, la pizza e gli spaghetti, il paesaggio stilizzato, le pastiere, il teatro di Viviani e De Filippo, il cielo e i colori del Golfo. Una teoria elegante ma consolatrice perché la napoletanità non è stata inventata negli ultimi secoli da una borghesia preoccupata ma egemone, ma è la cultura popolare napoletana come si è elaborata nei millenni.
La maschera di Napoli, Pulcinella, è il prodotto dell’ambiguità del popolo napoletano, vivo e morto, sciocco e intelligente, irriverente e cortigiano, a volte ottuso a volte furbo, ma sempre come se avesse una forma superiore di ragione. La dea della fecondità napoletana non è la Cerere delle spighe mature ma San Gennaro, che nasce nel quartiere dove è nata Santa Patrizia, che è lo stesso in cui sorgeva il tempio di Cerere, e prima che La Capria inventasse la napoletanità, essa celebrava i suoi saturnali a Piedigrotta, le sue vendette sanguinarie nei bassi e portava in processione Maradona, dipinto su un drappo o disegnato su un muro di Secondigliano con in testa la corona dell’Addolorata.
Ricordare a un napoletano che la cultura in cui è nato è una cultura tollerante fino alla complicità è impossibile. Negli ultimi decenni la letteratura, il teatro, il cinema, il giornalismo si sono interessati a Napoli, mettendone in luce senza pietà i difetti. Possiamo citare La Pelle di Malaparte, la Napoli milionaria di De Filippo, Il mare non bagna Napoli della Ortese, Napoli siamo noi ed Inferno di Bocca, fino al best seller Gomorra di Saviano.
Ma quello che mi interessa ricordare in questo articolo è una rappresentazione cinematografica della napoletanità. Come non citare allora Massimo Troisi, uno dei maggiori interpreti della comicità napoletana, definito dalla critica «un pulcinella senza maschera». Il suo linguaggio, sebbene a qualcuno incomprensibile, era infatti universale; la sua delicatezza, nel modo di ridere, di parlare, di scrivere. Nei copioni dei suoi film più famosi o nei suoi sketch con il gruppo ‘La Smorfia’, che lo vide brillare al fianco di Lello Arena e Enzo Decaro tra gli anni ’70 e ’80, Troisi riuscì a parlare di Napoli, delle sue tradizioni, del suo folklore, della sua quotidianità, ma ci riuscì solo perché aveva colto il bello di rendere quel mondo partenopeo globale, universale appunto. Caratteristica dei suoi film è la presenza di un “antieroe”, da lui stesso interpretato, un personaggio qualsiasi, un uomo di tutti i giorni che cerca di vivere con naturalezza la quotidianità. “L’antieroismo” di Troisi si concretizzava soprattutto nel fatto di andare contro gli stereotipi del napoletano che viaggia solo per trovare un lavoro, che si compiange inutilmente e che si atteggia a filosofico cantore dei suoi innumerevoli guai.
Dunque il ribaltamento della figura di napoletano da sempre proposta nel cinema e nel teatro, è molto presente in tutti i suoi film, nonostante ciò, auspicava a un recupero e a una valorizzazione della napoletanità. Uno dei suoi scopi principali fu quello di riuscire a essere popolare in tutt’Italia, nonostante le grandi differenze regionali del nostro Paese, e questo perché il regista era convinto che il patrimonio artistico e culturale non può esser limitato da latitudini o steccati. Il rapporto che Troisi intraprende con Napoli e con la napoletanità è essenzialmente d’amore, ma è un amore vissuto da lontano, e come in tutti i più grandi amori vi è una punta d’odio, che gli consente però di capire quanto ami la sua città e quanto sia importante preservare il patrimonio artistico e culturale, pur cambiandolo e rinnovandolo.
Napoli è inserita in ogni sketch, in ogni film di Troisi, ed è un po’ un filo conduttore che attraversa la sua produzione. Massimo Troisi, come disse lui stesso in un’intervista, era una parte di Napoli e, a sua volta, Napoli era una parte di se stesso. Napoli e la napoletanità sono per Troisi folklore, ma non solo: sono anche lo specchio dello smarrimento esistenziale, del crollo di certe ideologie e dell’inaccettabile rassegnazione che appartengono al vissuto di tutti e non solo dei napoletani. Del resto i personaggi interpretati da Troisi parlano napoletano ma, secondo il regista, avrebbero potuto parlare qualsiasi altro dialetto.
Napoli è stata sempre una città complessa e difficile da capire e interpretare, ma Troisi lo ha fatto, anche sfruttando i moltissimi stimoli creativi provenienti da essa.
L’attore nei suoi film ci dice che le banalità che si dicono e si scrivono su Napoli e i suoi abitanti, sul suo mare e sul suo Vesuvio, sono decisamente troppe. La vita a Napoli è, invece, ben altra cosa: è un’arte sottile.
W.A. Goethe diceva che «solo a Napoli ognuno vive in una inebriante dimenticanza di sé». Napoli e tutto il suo cinema, con il sorriso e il sentimento, aiutano l’intelligenza nel mestiere di vivere.
Quando si parla di Napoli e di napoletanità nel cinema, non si può non citare Così parlò Bellavista, giustamente celebrato con una proiezione gratuita il 10 febbraio scorso, in onore dei 30 anni dal suo arrivo al cinema, alla quale hanno partecipato commossi gli autori e 3000 spettatori. È un film che per diverse generazioni di napoletani non ha bisogno di presentazioni. C’è chi ne conosce interi brani a memoria, alcune espressioni e formule che in quella pellicola furono coniate sono diventate dizionario comune. I dialoghi fra Bellavista, professore di filosofia in pensione e la sua socratica combriccola, uno sgangherato ed esilarante circolo peripatetico (‘o scupatore,‘o purtiere, il poeta) fanno parte dell’immaginario collettivo. Il tutto ambientato in una Napoli romantica, spesso irritante ma assolutamente divertente, aperta e opprimente al tempo stesso, in continuo rapporto dialettico con un passato glorioso e con una presunta alterità nordica, rappresentata dall’ingegnere Cazzaniga arrivato da Milano, antesignano del direttore delle poste lombardo di Benvenuti al Sud.
Un continuo susseguirsi di bozzetti, maschere, situazioni al limite del verosimile ma che hanno in tutto e per tutto descritto, celebrato e spesso criticato lo spirito vero e proprio della città di Napoli, dei suoi abitanti, della sua cultura, lo spirito della napoletanità. Attraverso gli occhi del professore scopriamo il senso dell’appartenenza, a una famiglia come a una comunità. Il film ritrae gli innumerevoli problemi della Napoli moderna dentro e fuori dal contesto familiare.
Personaggi ben disegnati e mai eccessivi nel loro realismo, dal parcheggiatore per innamorati in auto, al “regista” per macchinette fotografiche automatiche, ne colorano le scene; Le due vecchiette fissate per il gioco del lotto, un carcerato in catene, inquadrato solo sulle mani in una straordinaria mimica, più esaustiva di mille parole, e ancora il “tormentone” del cavalluccio rosso divenuto uno dei pezzi più conosciuti del film: sono tipici esempi di quella agorà naturale e solo apparentemente improvvisata che Napoli sa diventare in ogni circostanza, da questo punto di vista sempre uguale a se stessa, abitata da quello spirito che nonostante tutto è un qualcosa di puro, un qualcosa di positivo che però spesso degrada e si trasforma nel tipico quanto semplicistico “arrangiarsi per tirare a campare”.
Lo stesso professore nella sua innocente “fissazione” verso Napoli, o meglio nel suo “culto” della città, scopre tutti i suoi limiti e i suoi preconcetti quando per volere del fato si scontra con quella che sembra un’altra Italia: L’Italia del nord, quella della Milano “efficiente e produttiva”.
Tra i tanti registi che Napoli ha partorito dal suo grembo, che girano i loro capolavori, insieme ad altri rappresentanti della napoletanità, lontani dalla loro città, con storie ambientati ovunque fuorché a Napoli, ecco che la napoletanità caciarona prende il sopravvento e viene sempre più rappresentata, al cinema e in Tv, a discapito di quella cultura del bello che ha generato meraviglie senza pari. Il riferimento è a un’ultima rappresentazione di Napoli e della napoletanità: il primo film da regista di Sergio Assisi “A Napoli non piove mai”, un film che non può essere considerato proprio esempio di quello che si può chiamare “riscatto patriottico”.
Protagonista un quarantenne fannullone e disoccupato, con la sindrome di Peter pan, coccolato da mammà e cacciato di casa da papà, in perenne attesa che San Gennaro gli ricarichi il bancomat, fa l’incontro della sua vita con una restauratrice nordista, affetta dalla sindrome di Stendhal, che arriva a Napoli per porre mano a un dipinto danneggiato. La trama rientra nelle acque sicure di uno stereotipo ormai consolidato con ingenuità quasi spaventosa, di una Napoli perennemente sorridente, popolata per metà da fannulloni e per metà da frustrati, maltrattati, ma decisi a un riscatto della propria vita; una Napoli solare ma anche troppo teatrale, folkloristica, pasticciata e posticcia. Fa quasi sorridere che una turista spaesata, arrivata nella pericolosissima Napoli odierna possa essere apostrofata per strada con l’epiteto ‘pucchiacchella’, cosa alquanto improbabile ai giorni nostri.
Un copione insomma dall’umorismo blandissimo, che insegue un registro grottesco mai realmente padroneggiato, confezionando una commedia goffamente infantile e troppo legata agli stereotipi napoletani, per niente valorizzante Napoli, la sua storia, il suo popolo e la sua napoletanità.
Napoli ha tanti figli sparsi per il mondo e tanti, infiniti amici che ne apprezzano le doti di umanità e fantasia. Conoscere la sua anima permetterà di apprezzarla maggiormente e per molti, ne siamo certi, di amarla e invidiarla. L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Tutto il mondo deve sapere che i napoletani sono gente antica e paziente, ma che in passato la città ha rifiutato l’inquisizione e dato i natali a Masaniello; abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba. Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei napoletani, gelosi del loro passato e arbitri del loro futuro, costretti a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente, di questa “Grande Bellezza” che è Napoli, la sua provincia e la sua storia cosa ne sarà? Tanto possiamo ancora fare perché ciò che Napoli è davvero venga fedelmente mostrato ed esaltato.
Ma Siamo ancora in tempo per farlo? Panta Rei, Tutto scorre, come amava ripetutamente citare il Prof. Bellavista.
Professò, facciamo in modo che non scorra invano.
Anna Chiara Stellato