Uno “Zeno” dei tempi moderni
Sembra che negli ultimi anni sia avvenuta una riscoperta dell’opera La coscienza di Zeno di Italo Svevo; si pensi all’omonima pièce teatrale tratta dall’opera per la regia di Maurizio Scaparro del 2014, e a Dalla parte di Zeno, scritta da Valeria Parrella e che si avrà, sempre come rappresentazione teatrale, per la regia di Andrea Renzi, nel 2016, e trattante di una visione introspettiva dei pensieri contrastanti della mente di Zeno Cosini; oppure, in ambito non teatrale, si pensi al racconto La coscienza di Steno di Vincenzo Caputo, inserito nella raccolta Scrittori in viaggio, a cura di Giuseppina Scognamiglio, Napoli, Guida, 2015, nel quale vi è una trasposizione in epoca contemporanea di un uomo attanagliato dalle contraddizioni come Zeno, ma non inetto, o presunto tale come lui, in quanto schiacciato dal peso di una società che non si riesce a sopportare.
Questa attenzione al grande romanzo sveviano, che di per sé ha il grande merito di porre un sottile e pur netto distacco tra il singolare individualismo e, come le chiamerà più tardi Eugenio Montale, le masse, pare svelare un’inadeguatezza che l’uomo sente intimamente verso la società, pur cercando di non mostrarla ad altri individui; sì è, insomma, riaperta quella ferita tra l’individuo e la comunità, forse mai sanata, che non riesce a rimarginarsi, ma che si vuol costringere a risanare. In questo modo l’uomo contemporaneo non sente il bisogno naturale di far parte di una comunità, ma è la comunità stessa, lui più o meno volentieri, che lo travolge e ingloba. Il fatto che egli non si senta veramente parte di una comunità, nella quale è costretto ad abitare con tutte le sue idee indotte, crea profonda solitudine nonostante si mostri, anzi si ostenti, in gran parte dei casi, la forza e il sostegno di una rete sociale che ha la stabilità di un castello di carte. Questa ostentazione pone realmente le sue basi su un’insoddisfazione dell’uomo verso la sua società, intesa ora come unione di diverse reti sociali; una società che a sua volta è vittima di circoli viziosi innescati dai suoi piani alti.
In questo modo all’interno della società circolano quindi idee, ma non ideologie (queste ultime più concrete e potenti rispetto all’astrazione delle prime), e in questo modo viene a mancare un’identità comune. Mancando tale identità, più forte è il senso di solitudine, e spesso questo senso di solitudine, unitamente a quello di insoddisfazione che non investe così solamente la società, ma l’intero tempo che l’uomo vive, diventa occasione per innescare, da parte di coloro che ne orientano le redini, i circoli viziosi di cui si è prima fatto menzione: sfruttamento della necessità, ricerca di una felicità, dissimulazione dell’insoddisfazione sono alcuni dei passaggi che accrescono il male della società di cui essa stessa è vittima e che, tragicamente, culmina negli animi singoli individui.
Come può, allora, ritornando al punto di partenza, Zeno Cosini guarire dalla sua malattia? Come può sanare quella frattura che pare diventata ora insanabile tra se stesso e gli altri individui se questi non sanno essi stessi di essere malati? O forse Zeno, l’estraneo, è già guarito proprio perché solo tra tutti è riuscito a cogliere il sentore della malattia comune?
In ogni caso, benché i tempi siano ardui, sa affrontare, per fortuna, il senso di un’epoca. Se pure a pochi, insegna; insegna a chi sa ben osservare il suo tempo, come trasmettere ideali e valori alle venture generazioni; insegna che il guardare il passato e il presente costituisce quella minima ma essenziale azione di porre una pietra su quelle già poste dai predecessori e insieme precursori delle epoche al fine di costruire, forse utopicamente, un mondo più vivibile.
Salvatore Di Marzo
L’ha ribloggato su sonia lambertini.