Nella seduta plenaria del 17 dicembre del convegno Chi ride ultimo – dedicato alla memoria dell’insigne professore Giancarlo Mazzacurati – si discute di temi scottanti, nonché tremendamente attuali. A quasi un anno, difatti, dal tragico attentato del 7 gennaio al periodico settimanale Charlie Hebdo, è necessario interrogarsi seriamente – sulle spalle dei giganti verrebbe da dire – su una particolare forma del riso che storicamente ha sempre suscitato dibattiti e controversie, ma che mai come oggi occorre analizzare nel dettaglio e con particolare delicatezza : la satira e la parodia religiosa.
Ad aprire le danze Maurizio Bettini, professore di Filologia Classica dell’università di Siena, che con un interessantissimo contributo – intitolato Ridere di Dio, ridere degli Dei – delinea l’orizzonte civile e il sentimento religioso del mondo antico, in particolare della civiltà greca. Civiltà eterna nella quale il sentimento del divino era sì profondamente radicato, ma significativamente dissimile dal contemporaneo. A differenza delle religioni monoteiste, difatti, in cui la figura divina è onnipotente, irrappresentabile, sideralmente lontana dal mondo fenomenico, nelle religioni politeiste l’umanità e gli Dei sono avvolti in un fitto fascio di relazioni e di reciproca compartecipazione. Soggetti ad un’antropomorfizzazione, difatti, essi interferiscono attivamente nelle vicende umane, ne condividono il pathos, le inclinazioni, le invidie, gli usi e possono persino riprodursi con i mortali. Un corollario di questa cultura è il sentimento del comico: si può ridere degli Dei, anzi si deve farlo. Attraverso un corpus di citazioni – tra le quali figurano lo sbeffeggiamento di Efesto nella nota scena dell’Iliade, passi di Rane e Pluto di Aristofane e la Batracomiomachia di Omero – Bettini comprova la sua tesi, dimostrando altresì le peculiarità e la rilevanza della dimensione del riso nel mondo antico. Una dimensione che preuppone a priori una reciproca complicità, la quale può essere difficilmente comprensibile – e accettabile – per un credente (ancor di più per un estremista) di una religione monoteista, o sedicente tale: se Dio non può essere icasticamente rappresentato o anche nominato invano, come ricorda il secondo comandamento, difficilmente si accetterà con leggerezza un suo sbeffeggiamento, specialmente nell’epoche antecedenti alle secolarizzazione dei beni ecclesiastici. Con Dio non si scherza. Può farlo un ateo, un agnostico, puntualizza Bettini, ma più difficilmente un fervido credente. Discorso diverso, forse, per i Santi che, in quanto figure intermediarie tra gli uomini e il mondo iperuranico, risultano più prossime al nostro immaginario e più facilmente oggetto di parodie e desacralizzazioni.
Nel secondo intervento, intitolato Scherza coi Santi. Parodie del divino da Joyce a Rushdie, Stefano Manferlotti, storico professore di Letteratura Inglese dell’Università Federico II, toccando ancora una volta tematiche tremendamente attuali, illustra analiticamente il meccanismo della parodia religiosa in Joyce e Rushdie, dopo aver rigorosamente definito la forma stessa (e le funzioni) della parodia, riflettendo anche sullo statuto e sulla “missione” che la letteratura in senso lato è portata ad assumere nei momenti di crisi: la libertà di pensiero e di parola non deve essere mai sconfitta, la verità – in forma di satira, parodia o altro ancora – non deve cessare di essere raccontata. “Chi brucia un libro, prima o poi brucerà un uomo”, sentenziò profeticamente Heine il 10 maggio 1933 quando i nazisti, con un grande rogo che si innalzò nella capitale tedesca, davano alle fiamme i libri degli autori “indesiderati”. Oggi, dopo le sanguinose tragedie a Parigi, non possiamo che constatare la fatale veridicità di un tale vaticinio. Joyce e Rushdie, più strettamente parodico il primo e più satirico il secondo, sono paradigmatici esempi di autori che non hanno rinunciato ad esprimersi liberamente, che non hanno temuto lo spettro della censura, delle ritorsioni o delle minacce dei radicali (Rushdie specialmente) . Con una costellazione di richiami intertestuali – tra cui si ricordano il memorabile incipit dell’Ulisse con la parodia scanzonata dell’Introito della messa di Buck Mulligan, la scena (in flusso di coscienza) del laico ed apolide protagonista Leopold Bloom nella Chiesa di Ognissanti, passi della sezione Circe (con particolare attenzione alla parodia joyciana del Buddismo) ed alcuni estratti testuali da Versi satanici e I figli della mezzanotte – il professor Manferlotti enuclea analogie ed aporie tra i due romanzieri.
La terza relazione, intitolata Riso e compassione, ha per oggetto una tematica differente, ma non meno interessante. L’illustre professore Thomas Pavel, teorico della letteratura e specialista di Letteratura Francese, ospite d’eccezione del convegno, illustra con estrema chiarezza e con una semplicità disarmante – semplicità che contraddistingue i grandi – una particolare declinazione dell’umorismo: il riso compassionevole, proprio della modernità. Per Pavel, al riso sprezzante, al fou rire, al riso complice e al riso (o sorriso) gentile che si ritrovano nelle letteratura di tutte le epoche, si affiancherebbe nel XIX secolo l’importanza crescente di un umorismo che contiene in nuce un sentimento di pietà, di compassione. Selezionando dei passi cruciali in diacronia dei capolavori letterari di ogni secolo, l’insigne professore comprova con maestria la sua tesi, dischiudendo spunti esegetici mirabili. Il primo esempio riportato è quello di Cherubino in Le Marriage de Figaro di Beaumarchais (fine XVIII secolo) magistralmente messo in musica da Mozart in cui il protagonista adolescente, innamorato di tutte le donne che lo circondano, maldestro e imprudente al limite della stupidità, resta tuttavia toccante nella sua ingenuità, nell’assenza di qualsiasi cattiveria nei gesti e nelle azioni che compie: egli suscita negli spettatori un miscuglio di divertimento e pietà, come se fossero compresenti un riso bonario, volto implicitamente a scuotere il ragazzo e distoglierlo dalle fantasie, e un intento protettivo, atto nasconderlo e sottrarlo ai pericoli che incombono su di lui. I sentimenti che Cherubino ispira sono simili a quelli che si provano dinanzi ai personaggi da commedia pastorale, per esempio Rosalinda e Celia in Come vi piace di Shakespeare. Per Pavel il sorriso compassionevole ha un’evoluzione significativa nel corso del XIX secolo, quando ad essere presi in esame non sono più esponenti eleganti dell’aristocrazia o del ceto nobiliare, ma anche personaggi di un’altra fascia sociale dall’indubbia verosimiglianza sociale e storica (egli analizza in particolare il personaggio di Emma in Pride and prejudice di Jane Austen). Così acutamente sostiene:
E’ come se il progresso del realismo e della società borghese prosaica e sprovvista di eroismo, che le opere appartenenti a questa corrente sapevano dipingere così bene, incoraggiasse la scelta di un riso alleato dell’empatia, senza chiaramente escludere le altre forme del comico. Perché? Ci sono almeno due motivi alla base della diffusione di questo genere di humour. Uno è lo sviluppo , che pone l’accento sulla realtà familiare dei personaggi e delle situazioni presentate al pubblico […] il realismo parla di individui che avrebbero potuto vivere non lontani dai lettori o che i lettori avrebbero potuto facilmente incontrare per strada. Una certa uguaglianza, portatrice di empatia e completamente diversa dal trasporto suscitato dall’arte classica della lontananza, si istaura tra i lettori e i personaggi del romanzo realista. Può capitare, così, che lo humour si giovi della prossimità e dell’empatia che moderano l’inclinazione al disprezzo e mettono in sordina il fou rire.
Manifestazioni cruciali sarebbero i primi romanzi di Dickens: Il Circolo Picwick, Le avventure di Oliver Twist e Nicholas Nickleby. Il secondo motivo rintracciato da Pavel è la ricerca, a partire sempre dal XIX secolo, di una nuova complessità psicologica – che spinge gli scrittori ad indagare le tendenze contraddittorie nell’animo dei personaggi (il Julien Sorel stendhaliano ne è l’emblema) e sociale. Complessità sociale di un nuovo sistema borghese e commerciale che implica un ideale della mobilità, sempre accompagnato dal rigore di norme che dovrebbero garantire una società omogenea e dalla ipocrisia che esse generano. Ecco, quindi, la comparsa di giovani che soffrono del “male del secolo”, di classi elevate o medie: Frederic Moreau, noto protagonista dell’Educatione sentimentale di Flaubert, ne è il paradigma. Disorientato e maldestro tanto quanto Cherubino nel secolo precedente, egli incarna la perplessità di una generazione, la complessità di una società che offre ai suoi membri molteplici strade possibili, ognuna rette da norme la cui vanità diviene tangibile, palmare. Con l’arrivo del XX secolo, infine, la filiazione sarebbe rintracciabile nei grandi maestri Cechov e Pirandello, il primo spontaneamente, il secondo nell’intento di moderare con l’humour il pessimismo del suo maitre à penser, Schopenauer:
Di certo è difficile considerare Zio Vanja e Enrico IV come delle vere e proprie commedie, ma in entrambe le opere non manca una vena comica
Un riso che nasconde le lacrime, una commedia intrisa di compassione per le sorti dell’uomo. Uomo sempre più alienato, frammentato, solo, costretto a darsi una forma nel caotico fluire dell’esistenza, a perseguire la chimera di una cristallizzazione nella magmaticità di un reale atroce, incomprensibile. Un dramma sempre più tragico nel quale un riso compassionevole, intriso di una tacita solidarietà per il comune patimento, può costituire un pharmacon transitorio per sfuggire al veleno esiziale dell’esistenza.
Guido Scaravilli
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