Compalit2015: Forme della parodia nel Medioevo
È il Medioevo arabo e (soprattutto) romanzo al centro del panel coordinato da Flavia Gherardi e Niccolò Scaffai nell’ambito del Compalit 2015, nella terza giornata di quest’edizione napoletana tutta dedicata al riso e alla satira.
Il primo intervento è stato di Oriana Scarpati, che attraverso una relazione dal titolo Il romanzo francese e la lirica in lingua d’oc dei secoli XII e XIII. Prime tracce di parodia, ha tentato egregiamente di evidenziare «il corto circuito che si instaura assai frequentemente tra lirica, romanzo e narrativa breve nel corso del XII e del XIII secolo tra il nord e il sud della Francia». Affronta dunque il dialogo parodico che intercorre tra aree anche distanti tra loro, e che tuttavia cooperano e collaborano per restituirci il Medioevo romanzo in tutta la sua complessità. Il percorso non segue una direzione univoca, e talvolta parte dal sud per salire al nord, mentre altre volte dal nord scende al sud, e basta che un autore operi anche soltanto a un livello del testo, sull’espressione o sul contenuto, per ottenere gli effetti ironici o parodici sperati. Ci viene incontro il caso di Raimbaut d’Aurenga, conte d’Orange, nato intorno alla metà del XII secolo e vissuto solo 29 intensissimi anni, che è il responsabile di alcune di queste parodie che trovano spazio nelle sue canzoni, in forma di citazione o, appunto, di ripresa parodica. Egli si dimostra fine conoscitore del romanzo francese, e tra i tanti pseudonimi coi quali i trovatori si rivolgono a lui, risalta quello di Tristan, a cui, tra l’altro, egli stesso si sente particolarmente affine. Anche lui, infatti, è l’amante di una donna sposata, con la quale intrattiene una relazione segreta. Quando invece il trovatore Giraut de Bornhel si rivolge a lui, in tenzone, chiamandolo Linhaura, ci costringe a riflettere sulla citazione implicita nascosta nella scelta del senhal. È possibile, infatti, vedere nel senhal Linhaura la compresenza di due elementi (Linh + aura), il primo relativo al lignaggio, il secondo al casato di Aurenga, mentre per altri ancora quest’ultimo farebbe riferimento alla follia.
Quello che però non può non entrare in gioco a livello di parodia è l’argomento comune, e cioè l’evirazione, a una canzone di Raimbaut ed un fabliau francese. La canzone di Raimbaut è alla lettera un’antigap, ossia una vanteria al contrario. Il protagonista, l’io lirico, essendo stato evirato, non può più costituire motivo di preoccupazione per i mariti gelosi. Analogo è il tema del fabliau d’Ignaure: dodici dame hanno in comune il medesimo amante che, scoperto dai mariti gelosi, viene ucciso ed evirato, e il suo membro dato in pasto alle dame. È evidente che, nel suddetto fabliau, abbiamo a che fare con la parodia di un tema, quello del cuore che viene strappato e mangiato, che godette di immensa fortuna nel Medioevo fino a Boccaccio. Dunque, l’operazione compiuta da Raimbaut nell’antigap è la seguente: il poeta decide di far suo il senhal già attribuitogli da Giraut de Bornhel, e lo risemantizza per poi comporre una canzone che prevede, proprio come nel fabliau, il rovesciamento di un tema, e la sostituzione del cuore con il membro virile.
Altre volte la portata parodica di un particolare sfugge o si perde nel tempo, e questo è il caso della satira poetica del trovatore Peire d’Alvernhe, invitato, come molti altri suoi contemporanei, al matrimonio di Raimondo Berengario II di Provenza. Peire prende di mira i poeti fisicamente presenti come lui al matrimonio e ne parodia alcune caratteristiche. Di portata probabilmente oscena sono i versi dedicati a Bernart de Ventadorn. In una delle sue canzoni d’amore costui aveva affermato di ardere di fuoco di forno, e questo elemento viene ripreso alla lettera da Peire, che così parla del suo collega:
E il terzo, Bernart de Ventadorn, / è di poco più basso di Giraut de Bornelh; / in suo padre ebbe un buon servitore, / capace di tirare con l’arco manuale d’avornello, / mentre sua madre riscaldava il forno
Si alluderebbe qui allo stato di impotenza del padre di Bernart de Ventadorn, perché l’arco di avornello è, tra tutti, quello più fragile e meno efficace, mentre il verso seguente starebbe ad indicare l’intensa attività sessuale della madre. Nella biografia di Uc de Saint Circ, l’elemento parodico presente in Peire d’Alvernhe perderà la sua carica dissacrante per essere preso, per così dire, alla lettera: il forno viene privato dei suoi connotati osceni e diventa emblema della professione del padre, fornaio, e non più della lussuria materna.
Il riferimento tra un testo e l’altro, in molti casi, è letterale, per cui si riprende un elemento e lo si trasfigura spesso in chiave oscena, al fine di generare il riso e contemporaneamente dissacrare il modello. Da una parte c’è la ripresa di situazioni cortesi che vengono ribaltate mediante l’inserimento di elementi non cortesi, dall’altra la citazione letterale di sintagmi che non possono non ricordare all’ascoltatore il passo del romanzo parodiato. Prendiamo il caso del fabliau di Morel, di autore anonimo come del resto gran parte della narrativa breve in lingua d’oil. In questo poemetto, una coppia innamorata convola a giuste nozze all’inizio della narrazione. Per assicurarsi che la moglie adempia ai suoi doveri coniugali, il marito inventa una formula linguistica, dicendo che bisogna portare l’avena a Morel, il cavallo, per far sì che lei comprenda il segnale e si conceda fisicamente. La signora, a quanto pare, non se lo fa ripetere due volte, è sempre pronta a dar da mangiare al cavallo, fino al punto che è il marito a stufarsi di questa eccessiva disponibilità. La conclusione della scenetta non è delle più romantiche, con il marito che defeca addosso alla moglie, stanco di concedersi fisicamente a lei. È chiaro che si tratta, spesso e volentieri, di racconti poco fini, scritti in modo poco fine per persone poco fini; eppure, di tanto in tanto, in un racconto apparentemente poco fine, c’è un dettaglio che colpisce il lettore colto, un effetto che sarebbe andato del tutto sprecato su un pubblico composto solo da persone non raffinate. Nell’incipit del poemetto, infatti, si parla della dama che ha messo cuore e corpo nell’amare un giovane ragazzo: l’ammiccamento qui è al Tristan di Chretien de Troyes, e al personaggio di Isotta, come soltanto un lettore esperto avrebbe potuto recepire.
All’epica romanza è dedicato anche l’intervento di Paolo Di Luca, che spiega come il comico sia da tempo riconosciuto come uno dei registri fondanti di questo genere letterario. Uno dei testi presi in esame è il Voyage de Charlemagne che soddisfa la moderna grammatica della parodia. Composto intorno alla metà del XII secolo, il poemetto narra della spedizione dell’imperatore di Francia e dei suoi pari, prima a Gerusalemme e poi a Costantinopoli, e l’obiettivo della dissacrazione è chiaramente la Chanson de Roland. Già il motivo della spedizione denuncia l’intento parodico dell’opera, dal momento che le questioni politiche e religiose non entrano affatto in gioco, se non ad un secondo livello, e il motore dell’azione è la gelosia che Carlo Magno nutre nei confronti dell’imperatore bizantino per un commento che si lascia sfuggire la moglie sulla sua bellezza. Numerose sono le formule e gli episodi tratti dal celebre modello che vengono sottoposti a un trattamento parodico. Uno su tutti, la ripresa del motivo dei sogni premonitori di Carlo Magno, che nella Chanson de Roland si presentano come un avvertimento sulle sciagure future, mentre qui il sogno in questione è soltanto pretestuoso, perché serve a celare il vero motivo della spedizione, che è appunto la gelosia di Carlo Magno. Giunti a Gerusalemme, Carlo e i paladini entrano casualmente in una chiesa dove sono conservati i seggi degli apostoli, su cui gli eroi decidono di riposarsi e di trovare ristoro, col risultato che lo stesso Carlo finisce per essere scambiato per un novello Gesù Cristo. A seguire, ricevono dal patriarca delle reliquie, sulla cui funzione vale la pena di soffermarsi: se nel Roland esse garantiscono protezione ai cristiani nella lotta contro gli infedeli, nel Voyage si trasformano nello strumento che permetterà ai Francesi di compiere le loro spacconate a Costantinopoli.
Con Alice Colantuoni restiamo nell’ambito delle chanson de geste, tra cui vien fuori il meritevole Charroi de Nimes. Lo charroi del titolo è un vero e proprio carro adibito al trasporto di mercanzie, che Guillaume d’Orange con il suo seguito adopera per entrare nella città di Nimes e conquistarla, fingendo appunto di essere una compagnia di mercanti. Si veda per esempio il passo in cui viene descritta la vestizione di Guillaume come se fosse la tradizionale vestizione del cavaliere, ma con stracci, accessori malconci e in disuso da almeno vent’anni. Si arriva poi alla marcia degli eroi che appare quasi come un ingresso trionfale, benché essi stessi siano apostrofati come villein. Lo spazio comico è garantito anche dal fatto che il gruppo non è per nulla pratico del mestiere di mercante, e la discesa nella parodia si accompagna alla discesa dei protagonisti lungo la scala sociale, e a quella vera e propria nel fango, quando si tratta di aggiustare una ruota del carro. È molto interessante notare come un testo di questo tipo mostri in tutta la sua evidenza la non interscambiabilità dei ruoli sociali, sperimentata nel caso dall’alto si torna verso il basso, e un cavaliere diviene mercante o monaco. Fatto non meno importante, la chanson de geste si prepara a diventare l’anello di congiunzione tra l’epos classico e la narrativa eroicomica dei secoli a venire, di cui abbiamo notevoli esempi già a partire dal Rinascimento.
Con Danilo Marino l’attenzione si sposta su un altro versante della letteratura medievale, quello arabo, grazie al suo intervento che si pone lo scopo di illustrare il legame stretto tra il consumo di sostanze psicoattive, in questo caso l’hashish, letteratura e riso. Il testo di riferimento di questa relazione conclusiva è il Riposo delle anime nell’hashish e nel vino, risalente alla seconda metà del XV secolo. Trattasi di un’antologia di testi in prosa e in versi attribuiti alla mano di diversi autori, ma raccolti da un poeta di origine siriana, Abu al-Badri. Come suggerisce il titolo stesso, questa antologia si suddivide in due sezioni: la prima è l’insieme delle composizione poetiche e degli aneddoti dedicati all’hashish, mentre la seconda è una collezione di testi bacchici. Ciò che è immediatamente visibile ad una prima lettura è la differenza stilistica tra le due parti. Le composizioni bacchiche si avvalgono, infatti, di metri classici, come classica è pure la lingua, mentre la sezione relativa all’hashish presenta composizioni più moderne; anche la lingua, in questo caso, è quel che si suole definire medio-arabo, composta cioè da forme linguistiche miste, classiche e dialettali. Viene spontaneo pensare fin da subito che la letteratura sull’hashish si ponga fin da subito come una parodia della letteratura bacchica “seria”. Questa sezione sull’hashish tollera infatti anche un’intrusione della componente più marcatamente oscena. Il consumo di questa sostanza è strettamente connesso all’intelletto e alla conoscenza, che va però ben oltre la sfera sensoriale dell’esperienza alcolica, e conduce ad un processo iniziatico che termina con l’approdo a una conoscenza superiore. Ma l’hashish è anche in grado di stimolare il potere dell’immaginazione e la facoltà di creare delle immagini. Va da sé che possa dunque muovere al riso e mettere di buon umore, e dal piacere delle immagini si passa al piacere sessuale, essendo l’hashish intrinsecamente connesso all’omosessualità. Non mancano i versi che invitano a godere dell’unione carnale, così come la componente oscena diventa in voga in epoca mamelucca e soprattutto ottomana. Lo spazio letterario arabo dedicato all’hashish nel Medioevo diventa così un luogo di puro godimento, dove la ragione e la logica cedono il passo al piacere e al divertimento, tanto per il corpo quanto per i sensi.
Andrea Vitale