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I Baustelle contro i falsi miti occidentali

«Non angosciarti più, che bisogno c’è? Quando partono le rondini, lasciale andare. Non domandare più che ragione c’è». Recita così la traccia d’attacco de I Mistici dell’Occidente, quinto e penultimo album dei Baustelle, uscito nel 2010. Sarà a causa di questa resa alla nera realtà, che fin da subito il giudizio della critica è piuttosto monocorde, nel marchiare l’ultima fatica, con l’etichetta di prodotto costruito unicamente per ingrossare il cantiere musicale della band, a poco più di due anni dalla presentazione di Amen. Non m’interessa, in tale sede, ridare dignità alle intenzioni del Bianconi e compagni, che per quanto in alcuni punti manifeste, restano pur sempre celate in molti altri. Come la voce maschile del gruppo ha dichiarato in numerose interviste, l’esordio di quest’album è dovuto al ritrovamento di un vecchio testo filosofico, tra una vecchia pila di libri nella biblioteca sotto casa del Bianconi: l’omonimo I Mistici dell’Occidente di Elèmire Zolla; e anche questa circostanza non suonerà poco familiare a chi, di classici espedienti letterari, ne conosce un bel po’. Ma che questo testo sia sbucato davvero dal niente, oppure no, poco importa…

Di certo, l’interpretazione mistica che in esso Zolla dà delle maggiori religioni d’Occidente, deve aver affascinato tanto gli artisti toscani, da spingerli a cercare un confronto con l’odierna spiritualità. È a questo punto che si inserisce ancora una volta la fredda critica dei Baustelle, che non è stata spazzata via dagli interessi commerciali dei produttori, come molti credono annunci la prima strofa di Indaco, ma tutt’altro. L’atmosfera lugubre (resa perfettamente dal citato carro funebre) e solenne domina questa canzone, effetto garantito dalla musica quasi sacrale che tiene il passo del testo, elevandosi e fino a sfiorare l’esito color del mare della parte finale. Cosa consigliano davvero i Baustelle, all’uomo moderno? Di guardare al cielo? O piuttosto, e questa è quella che preferisco, di guardare nel profondo?

In San Francesco, l’attacco rock ricorda che il lato più quotidiano e graffiante può regalare comunque la più degna spiritualità, può librare l’uomo anche in mezzo ai maiali. Concetto che si sviluppa con altrettanta vivacità, anche nel testo successivo, che dà il nome all’album; dove, saremo santi disprezzando la realtà, vuol dire rifiutare i falsi miti occidentali: la violenza come mezzo per arricchirsi, e  la legge del commercio e dello spietato consumismo per l’adeguamento a quella stessa realtà. Torna ridondante, in questa traccia, il mare.

Ne Le Rane, regna incontrastato l’autobiografismo: il ritmo veloce e incalzante fa scorrere un vecchio ricordo giovanile di Bianconi; tra malinconici richiami al mondo incontaminato della sua giovinezza e incredibili salti cronologici nel freddo presente, il protagonista guarda in faccia l’unica costante, la sola divinità capace di distruggere e di creare, il tempo. Gli Spietati sono gli uomini meccanizzati, pervasi dall’ossessione di rincorrere come invasati le ore che passano, decisi a non chiedersi mai il perché di questo movimento, né interessati a voltarsi indietro per osservare ciò che la corsa ha spazzato via senza pietà; in mezzo al loro, solo due eroi isolati (per la società antieroi) continuano a credere nei vecchi sogni, e combattono il dio Tempo, dimenticando per un attimo la logica sfrenata della modernità. Qui i Baustelle riaffermano con grande trasporto la forza rara, ma pur sempre profonda e ancestrale dell’amore. La deriva del sentimento è, invece, evidente in Follonica, ideale cittadina sul mare. Ecco due amanti, eccoli di fronte ai resti della loro passione, li vedono trascinarsi lentamente sulla sabbia, come ossi di seppia: lische, tampax, cicche, collant, penne Bic…

Torna il grido di protesta in La Canzone della Rivoluzione forse unica nota stonante, nella lunga rassegna dell’album: nonostante i piacevoli accordi rock, si conferma come un’accozzaglia di banale citazionismo, di prevedibile critica contro un nemico ideale tanto osannato, ma non identificato, e soprattutto di riferimenti a personaggi sconosciuti, probabilmente funzionali alla buona riuscita ritmica del verso.

In Groupies e La Bambolina, si passa dalla fugacità di rapporti sessuali vuoti e privi di entusiasmo umano, alla rappresentazione di un’adolescente disumanizzata, persa dietro gli ideali di perfezione estetica, priva di qualsiasi credo personale. È Rachele, voce femminile del gruppo, a pregare per lei:

Padre delle Nuove Borgate, delle Vite Ammazzate, buon Dio dell’Estate, regalale un fiore. Che sia liberata dai sogni e dai falsi bisogni,  non compri,  non esca,  non cresca, sia vera. Volpe a digiuno, si sente  nessuno, le  piace  la crema di Londra e di Roma , si allunga e si affina. È freddo, è  mattina , il mondo la tratta così. Cristo delle Peggio Borgate, delle Vite Sprecate, buon Dio dell’Estate, accendi un bel fuoco, brucia la modella smagliante sul cartello gigante e il suo triste sesso sia fine a se stesso.

La confessione de Il Sottoscritto è  il resoconto di un’ esistenza, steso da un amante in cerca di  perdono. Senza mezze parole, tra battaglie e aspirazioni inconcludenti,  con ritmo dolce e cadenzato il mittente si apre completamente alla destinataria, raggiungendo tinte  tanto chiare e  tanto forti, da rendere forse  il più acceso sentimentalismo dell’album. Sarà per il rischio di raggiungere soglie di ipersensibilità tanto alte da sconvolgere anche i più fedeli sostenitori del melodramma amoroso o solo per ridare lo slancio vitale delle passate stagioni personali e musicali; comunque sarà per questo o per altri motivi, che Bianconi decide di richiamare all’ordine con il testo successivo: L’Estate Enigmistica. Chi non aveva dimenticato le prese pop e noir del primo successo, Il Sussidiario Illustrato della Giovinezza, può finalmente gioire e ripercorrere quella dimensione ludica dell’esperienza umana: risolvere l’anagramma delle ragioni dell’esistenza può essere veramente amaro, ma come suggerisce l’artista tanto vale lasciare che sia esso stesso a svelarsi.

Giungiamo  all’ultima traccia, L’Ultima Notte Felice del Mondo,  si impone come chiusura di un ciclo, fin dal suo titolo. La protagonista del testo, scrive parole d’amore su un vetro bagnato, per dimenticare di essere sola da sempre; stringe forte al suo cuore l’amante, per dimenticare di essere sola da sempre; Rachele Bastreghi canta questa canzone per dimenticare di essere sola da sempre. E noi che ci interroghiamo costantemente sulle ragioni stesse dell’ esistenza, noi uomini persi dietro miti di ogni specie, di ogni provenienza, di ogni tempo, o semplicemente restii a perderci; cerchiamo tutti la possibilità (ed è questo che, Bianconi rileggendo Elèmire Zolla, può affermare in tutta sicurezza) di  dimenticare di essere soli da sempre.

 Francesca Ciaramella

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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