Vivian Maier e la sua fotografia “postuma”
Finding Vivian Maier è un documentario del 2o13 che racconta la straordinaria vita della fotografa americana, divenuta famosa solo dopo la sua morte. È una storia vera, sì, ma che sembra uscita dalla penna di un abile sceneggiatore, o di un bravo romanziere.
Vivian Maier si è spenta nel 2009 a Chicago dove aveva vissuto per molti anni facendo la bambinaia, e lasciando dietro di sé una grande solitudine, tanti silenzi, e un mistero; un’enigmatica eredità che finisce nella mani di John Maloof, un agente immobiliare la cui vita sarà completamente cambiata da questi enormi, stracolmi scatoloni che acquista durante un’asta. Al loro interno John scoprirà un numero spropositato di negativi: per lo più fotografie in bianco e nero, ma anche filmati. È così che inizia la seconda vita, da lei non scelta, di Vivan Maier, riconosciuta oggi come una delle più grandi fotografe americane, una pioniera nel genere della street photography.
Questa donna, solitaria, “vestita come un’operaia comunista”
(dirà qualcuno che la conosceva in una scena del documentario) aveva nascosto da sempre la sua arte, accumulando e nascondendo i suoi scatti maniacali, costanti, ossessivi. Nei giorni liberi, e anche durante le ore di lavoro – coinvolgendo i bambini che accudiva in disturbanti visite a mattatoi – Vivian non poteva fare a meno di scattare la vita che brulicava nelle strade della New York degli anni cinquanta. Sono gli anni delle prime macchine maneggevoli, che, per la loro conformazione permettevano di scattare foto a soggetti inconsapevoli, che non si accorgevano che l’occhio curioso e metallico della Maier li aveva prescelti. Ci viene spiegato nel documentario, ma ci viene rivelato soprattutto dalla naturalezza dei soggetti ritratti, da quelle espressioni così curiose, da quei dettagli così ricercati, che ci rivelano che nulla è artificiale in quegli scatti. Un’umanità nascosta e una fin troppo visibile appaiono tra gli scatti della Maier che sembra far cadere su di loro un tratto perturbante, tramite il gesto del suo scatto e del suo sguardo.
Un interrogativo emerge sullo sfondo del successo della fotografa americana, e riguarda l’operazione condotta da Maloof; è stato lui, infatti, a donarle popolarità, mettendo in rete gli scatti che aveva acquistato per pochi dollari. Da quel momento, una volta risalito all’autrice sarà lui a proporre in giro alle gallerie gli scatti della Maier. Ma chi la conosceva sapeva anche che, in realtà, c’era un motivo per cui i suoi negativi giacevano dimenticati in un box del quale da un po’ di tempo era scaduto l’affitto, insieme a tutti gli altri oggetti che la donna accumulava in modo seriale; la sua autrice non voleva che fossero visti da nessuno.
Le sue foto hanno fatto il giro per il mondo, con una crescente attenzione da parte di pubblico e critica (anche per via di questa particolare vicenda), ma senza “l’approvazione” di chi queste opere le ha realizzate. Come allora giudicare quest’operazione non creata – e voluta – dall’autrice? Da un lato abbiamo una sterminata produzione a cui “rendere gloria”, dall’altro non sappiamo quale racconto c’era, se c’era, e cosa davvero voleva dirci la Maier stessa attraverso il suo sguardo.
Se fossimo di fronte a un’opera scritta, nella suo studio a posteriori, questa sarebbe un’opera piena di insidie, ma nel suo essere prodotto visivo non pare essere mai sorto il problema dell’assenza di un volontà precisa dell’autrice. Dobbiamo apprezzare quegli scatti, ma tenere conto che la loro vita è nata da altri, e questo rifiuto da parte di chi li ha realizzati, dovrà essere tenuto conto per un giudizio maggiormente critico, che non trascuri il possibile lato tormentato di una donna piena di talento ma che si è sempre nascosta dietro l’ombra di una vita ordinaria.
Anna Giordano