Vivian Maier si è spenta nel 2009 a Chicago dove aveva vissuto per molti anni facendo la bambinaia, e lasciando dietro di sé una grande solitudine, tanti silenzi, e un mistero; un’enigmatica eredità che finisce nella mani di John Maloof, un agente immobiliare la cui vita sarà completamente cambiata da questi enormi, stracolmi scatoloni che acquista durante un’asta. Al loro interno John scoprirà un numero spropositato di negativi: per lo più fotografie in bianco e nero, ma anche filmati. È così che inizia la seconda vita, da lei non scelta, di Vivan Maier, riconosciuta oggi come una delle più grandi fotografe americane, una pioniera nel genere della street photography.
Questa donna, solitaria, “vestita come un’operaia comunista”
(dirà qualcuno che la conosceva in una scena del
Le sue foto hanno fatto il giro per il mondo, con una crescente attenzione da parte di pubblico e critica (anche per via di questa particolare vicenda), ma senza “l’approvazione” di chi queste opere le ha realizzate. Come allora giudicare quest’operazione non creata – e voluta – dall’autrice? Da un lato abbiamo una sterminata produzione a cui “rendere gloria”, dall’altro non sappiamo quale racconto c’era, se c’era, e cosa davvero voleva dirci la Maier stessa attraverso il suo sguardo.
Se fossimo di fronte a un’opera scritta, nella suo studio a posteriori, questa sarebbe un’opera piena di insidie, ma nel suo essere prodotto visivo non pare essere mai sorto il problema dell’assenza di un volontà precisa dell’autrice. Dobbiamo apprezzare quegli scatti, ma tenere conto che la loro vita è nata da altri, e questo rifiuto da parte di chi li ha realizzati, dovrà essere tenuto conto per un giudizio maggiormente critico, che non trascuri il possibile lato tormentato di una donna piena di talento ma che si è sempre nascosta dietro l’ombra di una vita ordinaria.
Anna Giordano
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