Peggio di tutto […] è se lei è tornata e si è dimenticata di staccare la segreteria, com’è successo appunto l’altro giorno. Comincia rispondere la vera lei, e l’ascolti beato, attento a non perdere nessuna sfumatura e poi di colpo, tac, qualcuno, l’altra, s’intromette e senti un aggressivo «chi parla?». Mi è successo due volte e in particolare col 283770 è stato un vero choc, come uno sbadiglio mentre si fa all’amore.
– Le voci [Claudio Magris, Il melangolo, 1993]
Sappiamo tutti cos’è un telefono. E sappiamo, anche, cosa significa per noi. Uno strumento rivoluzionario, la possibilità di collegare – molto prima che internet entrasse nelle nostre vite, e ancora adesso – luoghi lontani, persone distanti. La possibilità di incontrare, in un certo senso, vecchi amici restando a casa.
Si tratta di una comunicazione in diretta, ma al contempo differita, perché differiti siamo noi, fisici involucri che restano a distanze elevate gli uni dagli altri, mentre le nostre voci – e solo quelle – viaggiano attraverso i fili del telefono per colmare gli spazi che ci dividono.
A prescindere dall’abitudine che ormai possiamo avere con questo mezzo, resta una comunicazione straniante, innaturale. Possiamo fare smorfie di noia, boccacce, gestacci, mentre siamo al telefono e rispondiamo con voce serena e divertita. La nostra voce, quindi, non è più un tutt’uno con noi, ma si spezza e diventa un dr. Jekyll – la versione pubblica all’interno della conversazione – del nostro corpo Hide.
In un mondo – quello telefonico – basato esclusivamente sulle voci e sull’udito, Magris crea una suddivisione ancora più profonda. Il protagonista del suo Le voci crede che la vera voce sia quella registrata nella segreteria telefonica. Una voce vera, pura, rilassata, neutra, del tutto diversa nel tono da quella della persona in carne e ossa che risponde al telefono di fretta, scocciata, confusa dal sonno, con la bocca piena. Attraverso le voci, quindi, si riconosce la suddivisione che prima avevamo affidato a corpo e suono. Ascoltando parole al telefono, il protagonista senza nome – e senza corpo, una voce sola anche la sua – riesce a intravedere la realtà e la finzione, sebbene alla fine dei conti, le confonda senza scampo.
Come queste, anche le voci che Hans Schnier – protagonista de Opinioni di un Clown di Böll – sente quando parla al telefono, hanno un sentore di realtà. Hans percepisce attraverso il telefono parte di ciò che fisicamente accade dall’altra parte della cornetta: la voce porta con sé gli odori. Il sigaro fra le labbra, l’acqua di colonia. Odori che permettono al clown di comprendere meglio la situazione, di comprendere meglio quella voce, di interpretarla e di renderla più reale. Le telefonate che Hans Schnier fa nel corso del romanzo trasportano quasi i due interlocutori nella stessa stanza. Un telefono, questo, che assolve fin troppo bene alla sua funzione di collegamento.
«Pronto, qui casa Schnier.»
«Vorrei parlare con la signora Schnier» dissi.
«Chi parla?»
«Schnier» risposi. «Hans, figlio carnale della signora in questione». La ragazza deglutì, rifletté un momento e attraverso i sei chilometri di cavo sentii che era interdetta. Del resto aveva un odore simpatico, sapeva solo di sapone e un poco anche di smalto per le unghie ancora fresco.– Opinioni di un clown [Heinrich Böll, Mondadori, 1965]
In entrambi i libri l’azione è estremamente limitata. Certo, in Opinioni di un Clown i flashback riportano costantemente l’azione a ciò che ha preceduto quelle telefonate, tutta la vita precedente di Hans. Ma il presente narrativo, in entrambi i testi, è decisamente statico. In Böll ci sono pochi movimenti in quella stanza d’albergo, sovrastati soprattutto da ricordi, pensieri e telefonate. In Magris l’azione corporea è ridotta a zero, poiché è proprio una voce incorporea a presentarci la sua esistenza.
Un’esistenza, questa, che ripercorre altri romanzi e racconti, altre storie. Intere vite raccontate a una cornetta, o una sola frase di autoaffermazione, come il «Ciao, tesoro. Sono io» che chiude il bellissimo racconto di Carver Da dove sto chiamando. Esistenze filtrate dalla rete telefonica, in conversazioni dove dell’altro si può arrivare a non percepire più nulla, se non quella voce solitaria che fuoriesce da un altoparlante.
Come un bosco assordato dal cinguettio degli uccelli, il nostro pianeta telefonico vibra di conversazioni realizzate o tentate, di trilli di suonerie, del tinnire d’una linea interrotta, del sibilo d’un segnale, di tonalità, di metronomi; e il risultato di tutto questo è un pigolio universale, che nasce dal bisogno d’ogni individuo di manifestare a qualcun altro la propria esistenza, e dalla paura di comprendere alla fine che solo esiste la rete telefonica, mentre chi chiama e chi risponde forse non esistono affatto.
– Prima che tu dica pronto [In Id., Italo Calvino, Einaudi, 1993]
Maurizio Vicedomini
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