“Quando sei assetata non sperare che piova. Ragiona e cerca una soluzione. Chiediti: dove posso procurarmi dell’acqua potabile? È inutile sperare di trovare una bottiglia in un deserto. Le speranze lasciale ai disperati. Esistono le domande, ed esistono le risposte. Gli esseri umani sono capaci di trasformare un problema in una soluzione.”
Anna, la giovane protagonista dell’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti è una ragazzina che ha paura di crescere. Il suo è un mondo dove crescere è morire. Dove solo i bambini hanno spazio. E come ne Il signore delle mosche di Golding, i bambini sono rimasti i soli a doversi occupare di tutte le faccende della vita: l’amore, la morte, la paura, la nostalgia, la sopravvivenza e le assenze di chi una volta sembrava immortale.
Lì dove il romanzo occuperebbe lo spazio d’una storia d’amore.
Il momento è delicato si chiude con una breve lettera inviata in Australia dall’apocalisse. La stranezza però è che si tratta di un’apocalisse subdola, che si infila sotto la pelle e la corrode, che brucia. Non si vedono, e pertanto non ci sono, i quattro cavalli evangelici portatori di guerra, fame e carestia. Nulla presume una repentina fine, se non il lento consumarsi delle cose umane, delle faccende quotidiane, dei battiti di cuore che strappano sottili lamenti.
Con Anna, a tre anni dalla narrazione di quell’apocalisse, Niccolò Ammaniti amplia il discorso. Se quella fine del mondo era la pessimistica visione della realtà attuale indirizzata allo sfacelo, quella dell’ultimo romanzo non è altro che la rappresentazione delle prime conseguenze della fine già avviata.
Siamo nel 2020, la Sicilia è avvolta dalla cenere, Anna ha soltanto 13 anni e deve badare al fratellino Astor spostandosi in un paesaggio dove gli orologi sono rotti, manca energia elettrica e il passare degli anni si calcola a malapena.
La vita è dura, bisogna sopravvivere, conta la legge del più forte.
E crescere fa tremare le gambe perché un virus, la Rossa, uccide i grandi, lentamente, ma li uccide tutti.
Compito di Anna è rispettare le regole della mamma, che le ha lasciato un quaderno con le istruzioni per farcela: bisogna procurarsi da mangiare, prendersi cura di Astor, insegnargli a leggere, procurarsi le medicine.
Compito di Anna è trovare una soluzione per ogni problema; come dovrebbe ogni essere umano.
Come accadeva in Io e te o in Io non ho paura, il punto della questione è diventare adulti; attraverso gli incidenti e le problematiche del caso. La lettera dall’apocalisse di qualche anno fa è certamente uno sconfortante racconto del presente ma, seppure nella scia di questa visione, l’apocalisse di Anna, con i suoi pericoli e le possibilità d’avventura, non è che un’enorme metafora di tutto ciò che infanzia non è, e che al contempo allontana da questa. Il tema della crescita, tanto caro allo scrittore, abbandona lo scontro tra generazioni e affonda in un paesaggio che dell’infanzia non tiene più conto, in una natura che in nessun aspetto asseconda l’innocenza e la leggerezza tipiche della prima età.
In un libro, in genere nella fiction, la presenza di una apocalisse viene intesa come necessaria narrazione della fine del mondo. Storie di questo genere offrono al lettore l’illusoria convinzione di osservare da posizione privilegiata ultimi scampoli di vita umana. C’è però un altro modo d’intenderle, come per l’appunto accade con Anna: cioè tenendo conto dell’autentico significato della parola ‘apocalisse’, ovvero ‘rivelazione’.
In tal caso la scrittura non è più delegata alla rappresentazione delle sorti future dell’uomo ma all’esaltazione, alla rivelazione, di ciò che nel disastro circostante è umano.
Un umano inteso nella migliore accezione che il temine possa avere.
Antonio Esposito
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