Audace, “pornografica”, controversa, la prosa di Philip Milton Roth non passa di certo inosservata tra le pagine migliori della letteratura yiddish in lingua inglese. Nato a Newark (1933), New Jersey, lo scrittore di origini ebraiche fa parlare di sé – nel bene o nel male – la critica internazionale. Etichettato da molti come sessista e osceno, è, invece, lodato da una fitta schiera di “rothiani” come uno dei pochi geni viventi della letteratura contemporanea. Tra i capolavori firmati dallo scrittore del New Jersey, L’animale morente – ultimo di una trilogia di romanzi che hanno come protagonista il professore universitario David Kepesh – è una delle creazioni più toccanti dell’opera di Philip Roth.
Un tratto tipico della narrativa rothiana è la creazione di alter-ego, un ruolo che – dopo la fortunata saga di Nathan Zuckerman – lo scrittore affida a David Kepesh. Il protagonista della trilogia di romanzi, infatti, svolge la stessa professione del suo autore, che fu professore di scrittura creativa e storia della letteratura presso le università di Iowa e Princeton, e di critica letteraria presso l’Università della Pennsylvania.
L’avanguardia dell’impudicizia rothiana è evidente già nel primo romanzo della trilogia kepeshiana, Il seno (1972), in cui sembra di assistere ad una particolare rivisitazione del personaggio di Gregor Samsa (protagonista de La metamorfosi di Franz Kafka). In questo romanzo, infatti, il professor David Kepesh si risveglia e scopre di essersi trasformato, non in un ripugnante insetto, bensì in un’enorme mammella. Ne Il professore di desiderio (1977), invece, lo stesso personaggio racconta le sue esperienze erotiche partendo dai tempi del college, ma soprattutto indaga su “la storia del desiderio del professore”, e sulla presenza incombente della sessualità nella sua vita. Solo molti anni dopo i primi due romanzi, nel 2001, David Kepesh riappare ne L’animale morente.
L’attempato ma, come sempre, malato di desiderio professor Kepesh dell’ultimo romanzo, è solito organizzare delle feste di fine anno con gli studenti del corso di Pratical Criticism, allo scopo di trattenere in seconda serata la studentessa più interessante. La classe del ’92, però, riserva una sorpresa particolare al vecchio professore: Consuela Castillo, ventiquattrenne di origini cubane trasferitasi con la famiglia in New Jersey (elemento autobiografico onnipresente della narrativa rothiana) all’età di undici anni. Consuela non è come le altre ragazze:
“Non è mai in jeans, stirati o gualciti che siano. Veste con cura, sobrietà e buon gusto, gonne abiti e calzoni su misura”.
Consuela entra prepotentemente nella vita del professor Kepesh, e come un animale feroce ne invade ogni spazio, violando “il confine della distanza estetica”. La studentessa cubana dal seno prorompente e ossessionante mette in crisi la logica Kepeshiana del piacere puro, poiché invade “la sfera dei sentimenti”. Quando accade tutto ciò? Quando in una raccapricciante quanto straordinaria scena del romanzo, il professore chiede alla sua studentessa di guardarla sanguinare durante il mestruo.
Il corpo di Consuela occupa tutto il romanzo, i suoi fianchi scolpiti, i suoi glutei sodi, e sopra ogni cosa il suo seno perfetto, grosso, ammaliante, ma – si scopre nelle ultime pagine – minacciato da una feroce malattia. Così in un’ultima straziante scena del romanzo, il professor Kepesh, su richiesta di Consuela, fotografa i seni dell’amata, prima che il bisturi li dilani per sempre:
“Le scattai una trentina di fotografie. Lei sceglieva le pose, e voleva tutto. Voleva avere le mani sotto, che li reggevano. Li voleva mentre se li strizzava, li voleva dal lato sinistro, dal lato destro, li voleva fotografati mentre si chinava”.
Consuela non è il solo animale morente della storia. Tra le righe s’insinua la storia di David, un professore ammalato di desiderio e incapace di comprendere la sacralità del matrimonio; di Kenny, suo figlio, un uomo infelice a causa dei fallimenti del padre; di George, amico del professor Kepesh, che muore adoperando le sue ultime forze vitali per sfiorare il seno di sua moglie. Tutti loro, in un modo o nell’altro, vanno incontro ad un inarrestabile decadimento fisico e morale.
Gli specchi incantati di Philip Roth, da cui il titolo dell’articolo, non sono un’ingannevole metafora per rievocare antiche fiabe popolari europee,
tutt’altro: la narrativa rothiana non ha nulla di fiabesco, si aggrappa alla crudezza della realtà senza fronzoli e simulazioni retoriche. Il titolo dell’articolo rimanda ad una componente essenziale della narrativa di Roth, che è quella rappresentazione di sé stesso attraverso la creazione di alter-ego. È come se in ogni storia dovesse far rivivere – o esorcizzare – le fobie, le preoccupazioni e le ossessioni del vero Philip: il gusto per un erotismo sfrenato e quasi maniacale, il provincialismo del New Jersey, il corpo in decadimento, la morte.
La scomparsa per un incedente stradale della prima moglie, la seconda separazione, un esaurimento nervoso seguito con cure sbagliate, ognuno di questi eventi segna profondamente la produzione di Philip Roth, rendendo la sua opera una delle più intense di tutta letteratura americana. I personaggi rothiani creati dal “riflesso nello specchio”, riportano le screziature del vetro in cui nascono, le incrinature malinconiche e taglienti della penna del loro autore. La scrittura di Philip Roth è proprio come un vetro rotto, e ognuno dei suoi pezzi finisce inevitabilmente per lasciare un segno profondo.
Anna Fusari
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