Selma Meerbaum-Eisinger (1924-1942). Tratti di vita e poetica
Dopo il secondo conflitto mondiale si è sentito spesso il bisogno di trasmettere i sentimenti e soprattutto i dolori provati durante la guerra da coloro che in un modo o nell’altro l’hanno sopportata. Per quanto riguarda esperienze della Prima Grande Guerra abbiamo i versi di Giuseppe Ungaretti conservati nel suo tascapane, e per la Seconda Guerra Mondiale i Sentieri di nidi di ragno (1947) di Italo Calvino, sulle esperienze relative alla Resistenza, e Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, sulle esperienze sulla Shoah. In letteratura straniera relativa alla Shoah è possibile citare il Diario di Anne Frank (1947) e la raccolta poetica Florilegio (la cui prima edizione integrale risale al 1976) di Selma Meerbaum-Eisiger. Ed è a questa giovane poetessa di Czernowitz, vecchia capitale della Bucovina (territorio oggi inesistente nella sua interezza in quanto diviso tra Romania e Ucraina) che la germanista e traduttrice Francesca Paolino ha dedicato i suoi studi confluiti nella biografia Una vita. Selma Meerbaum-Eisiger (1924-1942) (Trento, Edizioni del Faro, 2013), e nell’edizione delle sue poesie Florilegio (Trento, Edizioni Forme Libere, 2015) curato dalla stessa Paolino.
L’importanza di questi due volumi risiede nel fatto che essi vanno ad accrescere un’esigua bibliografia italiana su una poetessa del tutto o quasi sconosciuta, ma che merita di essere letta sia per la bellezza e la spontaneità dei suoi versi, sia in quanto testimonianza non tanto degli orrori della politica antisemita, quanto di una personale visione vitalistica della vita nonostante le circostanze di precarietà in cui Selma, prima di essere deportata nel campo di lavoro in Transmistria dove morì, fu costretta a vivere a causa delle leggi razziali. Inoltre, attraverso la lettura dei due libri è possibile definire a pieno il profilo di Selma poiché, se nella biografia (la prima dedicata alla poetessa) è possibile tracciare un discorso sulla formazione culturale e in qualche modo dei motivi della sua poetica, in Florilegio Francesca Paolino affronta tematiche prettamente filologiche relative al manoscritto contenente le poesie.
Per quanto riguarda la biografia Una vita, essa si presenta non soltanto come un luogo dove viene delineata la vita, appunto, di Selma intercalata in un determinato contesto culturale, storico e sociale (Una vita, pp. 37-53, 55-74), ma soprattutto come tentativo quanto più riuscito di delineare il profilo della ragazza prima che della poetessa. Grazie alle fonti, rappresentate da testimonianze di conoscenti della poetessa sopravvissuti alla Shoah, prende forma il carattere esuberante della ragazza; un carattere curioso, solare, creativo, il viso sorridente di Selma, i suoi occhi marroni e pieni di vita, i capelli scuri e crespi. Importante, inoltre, per comprendere meglio la personalità di Selma è il quadro storico e sociale in cui ella è immersa e di cui Francesca Paolino non manca di trattare in maniera approfondita. In più, la studiosa affianca alla ricerca degli eventi caratterizzanti la vita di Selma alcune poesie di Florilegio così da definire in maniera più precisa l’indole e, a tratti, proponendo motivi di ispirazione che hanno costituito la genesi di alcune liriche. Il libro è chiuso da una serie di illustrazioni costituite in gran parte da fotografie di parenti e amici e di Selma, di Selma stessa, e da alcune opere del pittore Arnold Daghani, tra i compagni di prigionia di Selma sopravvissuti, che immortalano i tristi momenti immediatamente successivi al trapasso di lei nel campo di lavoro e che risultano carichi di significato solenne e religioso per le affinità col soggetto della deposizione di Cristo dalla croce.
Il volume sulle poesie di Selma Meerbaum-Eisiger, Florilegio, si presenta come un’edizione allestita per conservazione del manoscritto superstite della poetessa, che « […] consta di una copertina rigida, cartonata, sopra la quale è incollato un foglio di carta da regalo con motivo floreale su fondo azzurro, e di un gruppo di fogli tenuti insieme da un cordoncino nero fatto passare per due fori praticati su uno dei due lati corti di ogni singola pagina» (Florilegio, p. 12). L’album, conservato a Gerusalemme presso lo Yad Vashem (il Memoriale dei martiri e degli eroi della Shoah) e contenente 63 testi manoscritti, raggruppati in due Parti con rispettive sezioni, e 12 illustrazioni di diversa origine, risulta essere un tentativo di Selma di scrittura in bella copia delle sue poesie; lo si evince da diversi fattori che Francesca Paolino non manca di sottolineare. In primo luogo, la nota aggiunta a matita rossa dopo l’ultima poesia ricopiata: «Non ho avuto il tempo di finire di scrivere. Peccato che tu non abbia voluto salutarmi Auguri Selma». In secondo luogo, il fatto che, oltre i fogli che contengono le poesie, ve ne sono molti altri successivi ancora bianchi ma numerati, indice dell’intenzione da parte di Selma di voler continuare l’allestimento dell’album. Da questo inoltre è possibile affermare, come ha notato anche la curatrice del volume, che le poesie pervenute non rappresentano la totalità dell’opera di Selma, bensì parte di una più ampia opera o progetto compositivo. Inoltre, va specificato come le poesie, a cui è affiancata autografa la data di composizione, non siano state copiate in ordine della loro genesi, ma disposte secondo un’esigenza o un disegno intimo dell’autrice. Potrebbe essere interessante, peraltro, ricostruire la cronologia delle liriche al fine di cercare un filo conduttore che possa delineare in maniera più specifica il pensiero poetico ed eventualmente anche gli umori della giovane poetessa.
Altro aspetto evidenziato da Francesca Paolino sono le edizioni delle poesie di Selma di cui si ripercorrono le tappe di composizione, a partire dall’antologia che raccoglieva i versi che avevano come tema la persecuzione ebraica Un mosaico di destini… pubblicata a Berlino Est nel 1968, passando per l’edizione privata (in quanto distribuita solamente ad amici e conoscenti) del 1976 contenente le sole poesie di Selma e curata dal professore di matematica della giovane, fino alla prima pubblicazione assoluta avutasi nel 1979 per la casa editrice dell’Università di Tel Aviv, e proseguendo per altre edizioni sia delle poesie che di monografie fino ai giorni nostri.
Un altro aspetto di ambito filologico è quello relativo alle poesie da lei definite “spurie”, ossia di non sicura appartenenza alla mano di Selma. Si tratta di poesie scritte in lingua inglese presumibilmente durante il periodo di prigionia e miracolosamente portate in salvo, e di una poesia dal titolo Morelle. Se però, per quanto riguarda le poesie inglesi, è stato affermato con certezza che esse non possano essere di Selma, sia perché presentano elementi estranei alla sua poetica, sia perché, e maggiormente, sono state ammesse, da parte del pittore compagno di prigionia di Selma, Arnold Daghani, come delle copie tratte da un’antologia inglese in segno di tributo all’amica poetessa scomparsa, per quanto riguarda la poesia Morelle la questione si complica. L’autografo di questa poesia, assente dall’album e nella presente edizione tralasciato fuori dal corpus in quanto priva di una fonte certa, è redatto non nella grafia di Selma ma in quella della sua cara amica Else Schächter-Keren, con cui amava discutere di poesia ed essa stessa poetessa, nonché colei grazie alla quale, prima di essere deportata, Selma affidò il suo album facendolo arrivare, per fortuna, fino ai giorni nostri. Definire la paternità o, per meglio dire, la maternità di questa poesia non è semplice, soprattutto perché presenta affinità linguistico-sintattiche e tematiche con le poesie di Selma. Nonostante ciò Francesca Paolino, ricordando come le composizioni originali di Else risultino per diversi tratti affini a quelle di Selma, ritiene che la poesia sia opera di Else «considerando più precisamente questa lirica come trasfigurazione della persona, del modus vivendi di Selma e delle sue idee sulla morte, respinta e avversata “ostinatamente” fino alla fine» (Florilegio, p. 39).
Si pone anche l’accento sul parallelo tra Anne Frank e Selma Meerbaum-Eisiger che nell’edizione miscellanea del 1968 viene tracciato, e che viene poi messo da parte in quella nell’edizione del 1979 avutasi grazie all’Università di Tel Aviv. Nell’edizione del 1968 il termine di paragone tra le due era basato in qualche modo sulla giovane età delle due ragazze tralasciando in seconda istanza il fatto che se Anne aveva tenuto il suo Diario durante il periodo trascorso nel rifugio, Selma aveva scritto anche nel periodo precedente alla occupazione di Czernowitz, la sua città, e non si conoscono composizioni, se esistono, collocabili nel periodo della sua deportazione. Le diverse esperienze devono aver comunque e inevitabilmente condizionato le due giovani, in quanto se Anne pare perciò osservare il mondo dalla sua posizione con un certo timore di partecipazione, Selma diversamente ci si butta a capofitto. Quella che solo inizialmente fu per Anne una “salvifica reclusione” portò la giovane quasi a considerare la sua vita di allora una non-vita, ferma nell’inerzia e nella paura, e a sperare in un futuro migliore; «Anne Frank oscilla tra speranza e apatia» (Florilegio, p. 27). Circa le differenze tra le due, chiaro appare il pensiero di Francesca Paolino in queste parole:
«Entrambe proiettate verso il sogno […] esprimono però un’impostazione diversa rispetto al futuro, che per la Frank si traduce nel desiderio di avere uno spirito più forte, di migliorare se stessa, e nell’anelito a un’auto-affermazione contro gli adulti e sugli adulti […] mentre Selma Meerbaum diviene volontà di dispiegare al massimo, e in direzione già individuate, una forza e un carattere definiti e formati, di contribuire al miglioramento del suo angolo di mondo senza considerare gli adulti quali termini di paragone negativi»
(Florilegio, p. 26)
È l’imposizione del proprio carattere sull’intero mondo circostante. Insomma, Francesca Paolino, in merito alla questione, si pone non senza ragione contro la possibile tendenza a svolgere un parallelo volto a delineare l’identità non solo delle due ragazze per il solo fatto di essere martiri della Shoah, ma contro anche il fatto che «oggi purtroppo ogni ragazzina vittima dell’Olocausto è condannata a portare la maschera dell’esile Anne Frank, in cui Anne Frank è ogni giovane ebrea morta in campo di concentramento – non importa se più grande o più piccola o se risponda al nome si Selma o Etty o Luise – in cui Anne Frank è un trade mark, è una garanzia di successo, solo perché arrivata per prima sul mercato librario. A scapito della sublimità di altri cuori, dell’originalità di altri percorsi letterari» (Florilegio, p. 28).
Per quanto riguarda le poesie di Selma, il corpus, come ancora spiega Francesca Paolino nell’Introduzione a Florilegio, fu pensato come pegno d’amore della poetessa verso un giovane amico, Leiser Fichman. Ciò lo si evince, oltre che dalle testimonianze, dalle dedica preposta da Selma nell’album: «Con amore a Leiser Fichman, come ricordo e ringraziamento per tanta indimenticabile bellezza». Ma queste liriche non sono da intendersi come delle liriche d’amore verso, appunto, l’amato. L’oggetto dell’amore e del desiderio di Selma era la vita, la vita per la vita. Si veda ad esempio una tra le sue poesie più significative, Poema (Florilegio, pp. 114-119), nei cui versi Selma trasfonde il suo entusiastico vitalismo negli elementi naturali.
Gli alberi stillano un tenue chiarore;
tremule al vento, brillano le foglie.
Il cielo, morbida seta azzurra,
è una goccia di rugiada versata dalla brezza del mattino.
Gli abeti, circondati di rossa cortesia,
si inchinano a Sia Altezza il vento.
Dietro i pioppi, la luna guarda il bambino
che al salutarla le regalò un sorriso.Maglifici i cespugli al vento:
ora d’argento, ora d’un verde acceso,
ora come raggi di luna su capelli biondi,
e poi come fiorissero di nuovo.Vorrei vivere.
Guarda che colori ha la vita!
Quanti meravigliosi giri di danza!
E molte labbra attendono, ridono, ardono
dichiarano la propria gioia.
Guarda come sale la strada:
così ampia e luminosa, come se mi aspettasse. (vv. 1-19)
Pare che la natura, che diviene sinonimo della vita coi suoi cicli e la sua crescita, invogli la giovane poetessa a salire per la strada della vita quasi divenendo un tutt’uno con essa. Eppure c’è come un impedimento, un ostacolo che rallenta e arresta il cammino di Selma: «Vorrei vivere» (v. 13). Perché quel condizionale? È il primo sentore di una tragedia imminente, di lì a poco espressa, ma contro la quale Selma non perde animo e non manca di farsi forza.
Vorrei vivere.
Vorrei ridere e sollevare pesi,
e vorrei lottare e amare e odiare
e vorrei prendere il cielo con le mani
e vorrei essere libera, respirare e gridare.
Io non voglio morire. No:
no.
La vita è rossa.
La vita è mia.
Mia e tua.
Mia. (vv. 26-36)
Nel suo straripante desiderio di vita Selma porta con sé chiunque le sia accanto, ed anche il lettore: «La vita è mia. / Mia e tua» (vv. 33-34). È la spinta vera l’appropriazione di un qualcosa di cui si avverte un senso di precario. Così, da versi che cantano slanci vitalistici si passa immediatamente – e questa pare essere una delle affascinanti peculiarità della poesia di Selma e del suo carattere, considerando il fatto che sia sta descritta più volte come «una ragazza riflessiva e riservata che all’improvviso poteva mettersi a ballare per l’irrefrenabile contentezza o piombare in una profonda afflizione» (Una vita, pp. 31-32) – a versi drammatici come quelli che seguono.
Perché romba il cannone?
Perché la vita muore
per sfavillanti corone? […]Che cosa?
Muoiono
a mille a mille.
Non si alzano.
Mai più.
Io voglio vivere.
Anche tu, fratello.
Un respiro
esce dalla mia e dalla tua bocca. (vv. 36-39, 45-53)
Un respiro che rimanda contemporaneamente alla peculiarità degli esseri viventi e all’esalare l’ultimo respiro. Ed è questa l’ambivalenza, la precarietà di questi versi che camminano sul filo della lama tra la vita e la morte, ma che poi precipitano verso il silenzioso baratro.
La luna è argento chiaro nel blu.
I pioppi sono grigi.
E in me ulula il vento.
La strada è luminosa.
Poi…
Poi vengono
e mi strozzano.
Io e te
morti.
Rossa è la vita,
ulula e ride.
Nella notte
sarò
morta.L’ombra di un’albero
vaga sulla luna.
Puoi vederla appena.
Un albero.
Un
albero.
Una vita
può gettare ombre
sulla
luna.
Una
vita.
Muoiono
a mille a mille.
Non si alzano,
Mai,
mai
più. (vv. 59-90)
Se la poesia si apre con il canto magnifico della natura e della vita,essa si conclude con l’avvilente verità del reale, cosa che si percepisce anche a livello metrico in quanto se i primi versi di Poema sono lunghi e distesi ne descrivere l’arcana meraviglia della natura, dalla svolta drammatica fino alla conclusione, essi a paiono frammentati e pregni di spaesamento. Ed è forse da un episodio reale che questa poesia può essere stata generata. In calce al componimento è recata la data ” 7.VII.941″ e questa data, come riporta Francesca Paolino nel descrivere gli eventi che caratterizzarono la vita di Selma nel 1941 e la violenza della Gestapo, «il 7 luglio la grande sinagoga di Czernowitz fu data alle fiamme, il rabbino capo della comunità arrestato insieme ai suoi collaboratori e barbaramente ucciso nei dintorni della città. Razzie e violenze si susseguirono ininterrotte, alcuni riuscirono a fuggire, altri cercarono di combattere fino all’estremo. Mucchi di cadaveri giacevano in strada, senza sepoltura, per via del divieto di uscire di casa» (Una vita, p. 68-69).
Altra caratteristica delle poesie di Selma è la tendenza a dipingere nei suoi versi i profili di oggetti e particolari minimi che compongono la vita quotidiana e che contribuiscono a rendere, così, reale l’esperienza della giovane. Grazie a questa naturale propensione di di scrittura, il lettore vede con gli occhi di Selma il mondo circostante e caricato dei suoi significati. Si veda ad esempio la poesia Castagne (Florilegio, p. 65).
Sulle strade chiare e piane
stanno sparse e insonnolite
sorridenti e scure come una bocca morbida; […]Come ne prendo una e la poso sulla mano,
fragile e delicata proprio come un bimbo,
ecco che penso all’albero e alla brezza,
al suo flebile canto tra le foglie,
a come per le castagne questa nenia
sia pari all’estate che andò via in silenzio
lasciando, ultimo addio, soltanto questo suono. (vv. 1-3, 6-12)
In questa poesia dalle tinte autunnali pare vedersi nelle piccole castagne il simbolo e l’oggetto della caducità del tempo e della vita. Una placida dolcezza che ora, diversamente dai primi versi di Poema, resta ferma a contemplare lo scorrere dell’esistenza.
Altro esempio può essere costituito dalla poesia Quiete (Florilegio, p. 71).
Nella stanza si librano quiete e calore,
come un uccello nell’aria infuocata;
quieto, sul piccolo tavolo nero,
il centrino, fine e delicato come una fragranza.
Il bicchiere con l’acqua limpida come un sogno
veglia perché il campanello vicino non trilli
e sembra aspettare piccoli pesci.
Il garofano rosso sonnecchia nella camera,
come se fosse il re. […]Le finestre guardano la strada, credono
che tutto accada là per loro.
Lo specchio riluce e l’orologio vi ticchetta dentro;
in un paese lontano, canta un gallo
e un cordino blu tiene le tende.
Il garofano, rosse le tenere creste,
attende quel raggio che, dalle fessure,
oggi gli ha fatto una veste di polvere d’oro. (vv. 1-9, 17-24)
«La polvere diventa oro. Il canto trasforma una modesta casa in una dimora regale, anche se […] Selma non aveva una camera tutta per sé» (Una vita, p. 29). Forse è stato proprio grazie a questa condizione di non agiatezza che Selma sviluppò una splendida immaginazione, facoltà necessaria a ogni grande poeta. Una costante, poi, dei suoi versi, benché talvolta non menzionati, sono i colori; i colori che danno vigore alla sua poesia, che danno forza di impressione, che danno veramente vita alle parole.
Guarda che colori ha la vita! (Florilegio, Poema, v. 14)
Ecco, la poesia di Selma Meerbaum-Eisinger si realizza in quei colori che sono viva espressione dei suoi sentimenti, delle sue sensazioni, dei suoi stati d’animo, del suo amore, del suo dolore. Un’esplosione di colori di cui di compone l’esistenza che si può intuire già dal titolo della raccolta, Florilegio.
Questa è la potenza dei giovani versi di Selma, che Francesca Paolino ha illustrato con perizia e palese amore verso la poetessa. Due libri, quindi, uno compendio dell’altro che gettano luce su di una giovane, per cui non si può non sentire affetto, e sul suo album di poesie, «lanciato con forza inaudita attraverso gli anni a venire così da rompere la cortina dell’oblio, attraversando i silenzi del dopoguerra, i pregiudizi sulla lingua tedesca e sulla giovane età che lo creò» (Florilegio, p. 9).
Salvatore di Marzo