Avete mai provato a contare, in casa, il numero di oggetti che basano il loro funzionamento sull’elettronica? Forse no. L’elettronica, al giorno d’oggi, è presente in quasi tutte le case dei paesi avanzati; che si tratti di un televisore, di un computer, dell’ultimo modello di un robot da cucina oppure di un semplicissimo orologio, da essa siamo praticamente circondati. Tali oggetti, progettati in maniera sempre più intelligente, finiscono per rispecchiare un ciclo vitale: vengono costruiti, vivono, diventano vecchi e muoiono. Talvolta questa “morte” è una scelta specifica del produttore: in tal caso si parla di obsolescenza programmata. Uno dei primi esempi di tale pratica si poté osservare nella prima metà del secolo scorso con il cosiddetto “Cartello Phoebus“: diversi produttori di lampadine si accordarono per evitare che la durata dei prodotti potessero eccedere un tot di ore. Più recente, invece, è il caso della Apple che dopo un contenzioso ha risarcito gli utilizzatori di una serie di iPod che, secondo loro, aveva una batteria progettata appositamente per durare poco; tuttavia non ammise la colpevolezza. Spesso si può anche notare che, senza particolari ed evidenti ragioni, la riparazione di un prodotto comprato da pochi anni costi esageratamente di più dell’acquisto di uno nuovo. Per mettere al riparo i consumatori da questo genere di abitudine poco simpatica nei loro riguardi, il Governo Francese, nel 2015, emanò una legge che prevedeva multe salate a chi metteva in atto dei meccanismi di obsolescenza programmata, obbligando inoltre i produttori a indicare per quanto tempo i pezzi di ricambio sarebbero stati disponibili. Oltre al meccanismo dell’obsolescenza programmata ve n’è uno basato invece perlopiù su di una chiave psicologica: l’obsolescenza percepita.
L’obsolescenza percepita è la molla che scatta in un consumatore e spinge a buttar via un oggetto completamente funzionante, a favore di uno nuovo, perché sembra obsoleto. Si pensi ad esempio alle maglie vendute dalle squadre di calcio, che all’inizio della nuova stagione utilizzano magari lo stesso set di colori e differiscono soltanto in qualche piccolo dettaglio, generando nel tifoso la voglia di avere la nuova versione della maglia; oppure all’industria automobilistica, che ripropone gli stessi modelli cambiando solamente la forma dei fari.
Non è detto però che vi siano solo vantaggi per un produttore che utilizzi tali pratiche: infatti il consumatore potrebbe pensare che il marchio sia scadente e non riacquistarlo.
C’è da dire che in rete, salvo i pochi esempi di cui sopra, non vi sono molte evidenze conclamate di obsolescenza programmata, tant’è che si potrebbe essere portati a pensare che si tratti solamente di una leggenda metropolitana. Se tutto ciò fosse vero, però, oltre che per le tasche del consumatore i maggiori danni sarebbero perpetrati ai danni dell’ambiente, sia per l’estrazione dei materiali che per la loro produzione, perché si rischierebbe di cestinare milioni di prodotti che magari avrebbero potuto continuare a vivere. Riguardo quest’ultimo passaggio, bisogna anche dire che spesso e volentieri prodotti perfettamente riciclabili, o per i quali vi sono delle disposizioni riguardo lo smaltimento(come i RAEE, Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche), vengono messi nel sacco nero dell’indifferenziato che, una volta finito in discarica, non consentirà più di riciclare qualcosa contenuto al suo interno.
Per cui, se quella dell’obsolescenza programmata non fosse una leggenda metropolitana, lasciamoci pure fregare…ma occhio all’ambiente!
Fabio Romano
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