Simone Weil, l’esempio de “La volontà” infaticabile
“Che hai da tremare, carcassa?”[1]. Il corpo, per Simone Weil, non è mai stato niente più di un involucro. Probabilmente, non è stato neanche quello; forse, non sapeva neanche di averlo un corpo. Si lasciò morire a trentaquattro anni, in un ospedale del Kent, ad Ashford. Si addormentò scrivendo le sue ultime parole, ancora con la penna tra le mani.
La vita di Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, è stata intimamente legata a quella penna e a quei fogli di carta su cui scriveva. Scriveva qualsiasi cosa: lettere, poesie, saggi, riflessioni, appunti. La sua vita è stata tutta immortalata dalla sua incessante ed instancabile attività scrittoria. Simone Weil sentiva il bisogno di raccontare, di riflettere, ma non su se stessa – quello mai -, bensì sugli altri, sulla guerra, sui suoi miti, sui suoi nemici, che, nonostante tutto, ha sempre rispettato.
Tra i sedici e i diciassette anni Simone scrisse dei topoi, dei compiti di scuola su argomenti a scelta, per il suo professore di filosofia Émile-Auguste Chartier, meglio noto come Alain. Negli scritti giovanili Simone mostrava già i segni evidenti di un’intelligenza fuori dal comune e di una sensibilità nei confronti del mondo e delle sue sofferenze che trascendeva in un’immedesimazione folle. Simone sentiva il peso dei malesseri di tutti gli uomini, soffriva per la carestia in Cina, per i soldati che morivano in trincea.
Appena terminati gli studi, vinse l’agregation e divenne professoressa di filosofia. Nonostante il suo lavoro intellettuale stesse aiutando tante giovani donne, entusiaste della propria insegnante, ad imparare la filosofia con il metodo Alainiano di approccio diretto ai classici, Simone abbandonò la sua professione per dedicarsi al lavoro manuale e per poter parlare, con cognizione di causa, della condizione degli operai. Nel pensiero di Simone Weil, l’utopia è un mondo dove il lavoro manuale è al centro della vita dell’uomo, poiché è solo attraverso di esso che l’essere umano può liberarsi dallo strapotere della macchina nella società capitalista.
La scrittrice francese fu molto vicina al marxismo, sebbene non ne condividesse tutti i punti, e al concetto di rivoluzione, sebbene sostenesse che l’unica rivoluzione per la quale avrebbe combattuto era quella “che avrebbe dato da mangiare a tutti”; tranne che a lei. Sì, perché Simone dimenticava troppo spesso di mangiare, di curare il proprio corpo, fino a perdere completamente il controllo degli ingranaggi perennemente in movimento nella sua mente, e a morire senza neanche rendersene conto.
Negli anni trenta, Simone Weil era angosciata dall’ascesa inesorabile del nazionalsocialismo Hitleriano e dalla presuntuosa chiusura del “Socialismo in un solo paese” promossa in Russia da Stalin, ma il suo pensiero e la sua denuncia rimasero inascoltati.
Durante la dittatura di Francisco Franco, partì per la Spagna e si arruolò per poter seguire i soldati del Fronte popolare, ma, maldestra com’era, le fu tolto il fucile e fu assegnata alla cucina dell’esercito per fare la sguattera. Del resto, per lei fu un sollievo, visto che non avrebbe mai sparato ad un uomo. Durante il periodo spagnolo si ferì gravemente ad una gamba e rischiò di perderla se non fosse stato per l’intervento del padre medico, che, non convinto dalle lettere di rassicurazione inviate da lei alla famiglia, decise di seguirla e, fortunatamente, la trovò prima che fosse troppo tardi.
Sebbene agissero dietro le quinte, i genitori di Simone sono stati per molti anni la sua salvezza, non è un caso che la ragazza sia morta nell’unico momento della sua vita in cui i suoi cari non poterono più seguirla.
All’arrivo dei nazisti tedeschi a Parigi, la famiglia di Simone la pose dinnanzi ad un ricatto morale: “se non scappi con noi, resteremo tutti qui”. Per salvare i suoi, Simone salvò anche se stessa dalla razzia parigina degli ebrei. Simone aveva avuto un’educazione laica dalla famiglia, ma i suoi nonni erano stati ebrei praticanti e, secondo le leggi razziali, questo bastava per rinchiuderli tutti nei lager.
Fuggirono a Marsiglia e poi si imbarcarono per l’America. Quando Simone ripartì per l’Inghilterra, i genitori non ottennero il permesso per seguirla e fu a causa di questo distacco che, poco tempo dopo, ricevettero la lettera che annunciava la morte della loro figlia.
Anche quando Simone Weil riceveva lo stipendio da insegnante, si accontentava di vivere con il salario di un operaio e il resto dei suoi soldi lo donava. Mangiava alla mensa sociale, credendo che le bastasse il po’ di cibo che mangiavano tutti gli operai sottopagati per sopravvivere, ma, in realtà, a sua insaputa la madre pagava gli inservienti della mensa perché le servissero dei pasti più sostanziosi. Fu l’assenza di quell’inganno materno a condannarla a morte quando rimase da sola.
In Inghilterra Simone lavorava incessantemente, anche di notte. Scriveva con un furore e una tenacia esuberanti; scriveva e lavorava troppo per il suo esile corpo malnutrito e stressato.
Cesar Brie, regista e attore teatrale argentino, ha celebrato l’impegno sociale e l’amore per gli uomini di Simone, in uno straordinario spettacolo intitolato “La volontà, frammenti di Simone Weil”. Il regista argentino parte da una lapide apposta sulla tomba della ragazza, molti anni dopo la sua morte, che reca un breve epitaffio, insolitamente in italiano: “La mia solitudine l’altrui dolore ghermiva fino alla morte C.M.”.
Da questa frase celebrativa dell’opera e della sofferenza di Simone Weil, il genio artistico di Cesar Brie inventa il personaggio di Carlo Manfredi (l’anonimo C.M. della lapide), un infermiere che assiste Simone negli ultimi giorni di agonia, prima che la morte se la porti via. È uno spettacolo ricco di immagini forti, emblematiche, rumori secchi, voci spezzate dalla sofferenza. Ogni oggetto collocato sul palcoscenico evoca un ricordo della vita di Simone, della sua lotta, del suo ardente desiderio di essere ovunque e per chiunque, della sua “volontà” di cambiare le cose.
Si occupò degli uomini, dei pensieri e delle azioni degli uomini.
Fu operaia, sindacalista, insegnante, scrittrice, storica, poetessa, drammaturga, combattente, filosofa, contadina.
Morì di stenti, in esilio. Si occupava degli uomini e dimenticava se stessa.(Cesar Brie, note di regia)
La delicatezza di Catia Caramia, l’attrice che da voce al ricordo di Simone, esprime tutta l’essenza di questa donna infaticabile e immortale, e si imprime con “forza” – una parola che Simone utilizzò molto – negli occhi, nelle orecchie, nel cuore dello spettatore.
C’è una frase di Hanif Kureishi che dice: “Almeno fa’ che io sia vivo quando morirò”. È esattamente ciò che è accaduto a Simone, che è rimasta viva fino al suo ultimo respiro; che ha continuato a scrivere, finché la morte non le ha strappato la penna dalle mani.
Anna Fusari
[1] Durante gli anni della Grande Guerra, Simone Weil, che aveva soltanto cinque anni, per farsi forza nella casa di famiglia senza riscaldamento ripeteva a se stessa la frase di Turenne.
Interessante lettura che forse avrebbe guadagnato con qualche incursione nel suo pensiero filosofico ancor più perché vita e pensiero sono in lei intimamente interconnessi. Mi resta vivo l interrogativo su quale concezione avesse dell uomo in quanto costituito anche di un corpo essendo lei così coinvolta con problemi di questo mondo.