Una vita

 

Gli occhi densi e neri, come calamite, pesanti, incendiari pronti a esplodere, e il nostro è solo un pezzo di ferro, inerme. Scompare l’asteroide, scompare il corpo, un odore freddo e incolore, le orecchie inondate dal silenzio, l’assenza di equilibrio, ciao ciao corpo, ciao ciao sensi; è la fine pensa. Tutti i suoi status gli sfrecciano davanti agli occhi, i post, le foto, le condivisioni.

A cosa stai pensando? Non lo sa: mi piace? Non mi piace? Commento? Tutti i miei status, tutta una vita, “oggi alla grande”, “ siamo fatti della stessa sostanza dei sogni… peccato fosse un sogno di merda”, “stasera filmone e coperte”, “ma andiamo pure tutti a fanculo”, e i miei commenti, “:)” “cool!”, “secondo me stai esagerando”, “stronzo”, e i miei insindacabili like e i libri letti e i film visti e le mie note e le mie foto, le foto del mare, le foto di lei, le foto con amici, le foto dei posti, i miei viaggi, le mie cagate… e gli altri, i musi e labbra strizzate, i sorrisi spalancati, le spiagge, le montagne, le citazioni, le esternazioni e le condivisioni. Sempre più veloce davanti agli occhi, veloce come il succedersi di post, di status, di link, la mia vita vortica con milioni di altre vite, un cocktail di esistenze, una discarica di pensieri perduti e inutili, senza controllo qualità, tutte uguali, tutte mi appartengono, tutte hanno sfilato per me aspettando un mio giudizio, un pollice verso. In un vortice virtuale scompare il nostro, rimarranno di lui immagini e giudizi, rimarrà di lui qualcosa che a tratti lo rendeva umano. Un silenzio inodore, un’assenza, un punto, una frase che finisce. Nessuna memoria… un punto, una pace primordiale. Una frase finisce. Un’altra nasce. Addio pace, la materia cerca la sua forma, la cerca e la trova, la stronza, la trova sempre; eccola lì, di nuovo, in quei due occhi neri e densi, come aculei fissi nell’anima, scarafaggi che rovistano tra le pieghe. Invece no, è solo un riflesso sul finestrino, nessun artiglio ti dilania l’anima, sono su un pullman!, pensa, forse è solo un cazzo di sogno! ma  sì, che coglione! è  stato solo un sogno, magari sto ancora dormendo, ecco spiegato perché non ci sto capendo niente, ecco perché tutta questa dannata confusione!

Un po’ più rilassato, si abbandona sul sedile, sporco ma sufficientemente comodo. Dall’altra parte del finestrino imponenti colonne di gas e polvere interstellare si innalzano maestose, la materia prende forma, gli occhi danno un senso, una gigantesca mano nel vuoto è pronta a ghermire ammassi di stelle splendenti di sangue. Cullato da un ronzio ancestrale si addormenta, tranquillo, rannicchiato, con le ginocchia che premono sul petto.

 

A occhi aperti

 A occhi aperti ti aprono, bolle di lava esplodono, manti di roccia e terra danzano impercettibili, la terra trema e partorisce molli creature, nel cielo sanguigno una luna enorme; occhi aperti su di te, quelli dei tuoi, quelli di lei, e il calore delle mani. Nella clava, nella selce tagliente è nascosta la spada, è nascosta l’atomica. Andrà tutto bene vedrai, le armate normanne marciano sulla A16, sete, sete, sete, sete, nelle loro mani altri milioni di mani, tutte sepolte in una doppia ellissi; e c’è un doblone d’oro purissimo, coniato a metà strada verso le Ande, inchiodato all’albero maestro e sul doblone una fiamma, una torre e un gallo e spicchi di universo.

Ecco, verso noi, la nave trascinata alla rovina da un vecchio bianco per antico pelo (guai a noi anime prave!), i suoi occhi sono ruote incandescenti, e sul ponte l’ossessivo tamburellare della gamba in osso di capodoglio, sete. Padre mio, ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? Bevi, piano… un sorso alla volta; una scimmia si alza, cammina su due zampe per meglio osservare, per arrivare a marciare con gradi e baionette, per arrivare davanti a uno specchio e guardarsi fisso negli occhi aperti e accorgersi che di vile cosa è fatta, che è nata nel pianto, nuda e tapina, e che in polvere sottile, di quella che brilla leggera in fasci di luce, tornerà.

Li vedi gli occhi spalancati, da pazzo? Scrutano ossessivi il corpo nudo, la pelle sottile adagiata come un velo sulle ossa sporgenti e una parola scavata nella carne; le dita indugiano timorose sul lungo taglio cicatrizzato, una parola indelebile di cui ignori il significato, un segno perché non mi colpisse chiunque mi avesse incontrato, troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Sotto i tuoi piedi un oceano, profondo, azzurro e fluttuante come l’anima, la nave rolla dolcemente, ti culla, tu sulla testa d’albero sei sospeso su vortici cartesiani; attento a muovere, anche solo di poco, un piede o una mano, non perdere la presa, attento a non sprofondare e precipitare con un grido soffocato.

Chi ha orecchi ascolti: colui che deve andare in prigionia, andrà in prigionia; colui che deve essere ucciso di spada, di spada sia ucciso. Chi ha occhi si guardi e scopra, nel nodo del tempo, allo specchio, il vecchio e il bambino nei propri occhi, aperti.

 

Chi ha occhi

Un cumulo di cose in cui ostinarsi alla ricerca di un senso. Un’esplosione gorgogliante di cose e tu lo sai bene che nel preciso (miracoloso e dannato) momento in cui una cosa diventa una cosa ormai è tua, ti appartiene. Cosa? Guarda bene, guarda quante cose, è così evidente che è banale discuterne. Le cose vanno come devono andare, sì, le cose vanno, e anche tu vai.

Cosa? È la base della materia, il mattone che tiene in piedi tutto l’ambaradan. Siamo lì nell’elenco tra una virgola e l’altra; un lungo elenco scagazzato alla rinfusa. Cosa succede tra una vignetta e l’altra?

Ascolta le urla nei balloon, il pupazzo prigioniero tra quattro linee,  infinite volte scalcia, salta, si dispera, vuole raggiungere il gemello nella vignetta adiacente; guarda i balloon scavalcare la griglia, vi si aggrappa, dondola, prova a spezzare la rete, al massimo ottiene di guardare se stesso immobile, impazzire in un’altra cella, distruggere i crash, i blam, i boom, inghiottire i gulp e affogare tra i sigh.

Nemmeno la parola fine lo consola, ormai ha capito, non può capire la sua storia, lui è solo uno dei tanti prigionieri; fine, fine di cosa?

Te ne sei accorto, vero? Non riesci a staccarti da quel pupazzo, la sua faccia è solo un cerchio, con due punti neri al posto degli occhi e un segmento per bocca, eppure ti somiglia. Fuori, un rumore ovattato, un’eco di passi, un’eco di discorsi infiniti, sempre gli stessi, una litania, una liturgia sempre uguale, sempre lo stesso dolore, sempre le stesse paure, è rimasta solo l’eco.

Ti volti, ma anche questo è solo l’eco di una vecchia abitudine scomparsa. Qualcosa ti è passato davanti, mentre te ne stai seduto rivoltato in te stesso come un calzino; io non sono cattivo, è che mi disegnano così.

 

Dipendenze

Cinquemilaseicentoquattordici parole, per non dire niente, solo per spararmele regolarmente in vena. Una parola a caso, meglio se lunga e complessa, la metto a bollire tra parentesi quadre [ ], è molto pericoloso, potrebbe esplodere un’intera frase; quando è evaporato via il senso filtro i residui con un cancelletto #, poi trito e polverizzo la roba rimasta, e la sciolgo in una parentesi tonda ),  aspiro con la spada, mi tasto il braccio, impaziente, trovo la vena e sparo.

——[αxxxxxxxΩ]―→ Aaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh! …………………………………………………………………………………………………………………………

Staccarsi per un poco dalle cose…cosa? È un’illusione lo sai. Lo so o almeno lo sospetto.

Cosa pensa lui? Te lo sei mai chiesto? Cosa avresti fatto tu? …Cosa? Te lo dico io cosa avresti fatto, fratello, avresti fatto lo stesso. Ti stai bruciando, senti dire da tizzoni spenti tra la cenere. Io dico che è vero, qualcosa si perde… cosa? ma qualcosa pure si guadagna, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma; e poi questo cazzo di pullman, con i suoi cazzo di sedili ammuffiti, squarciati a vomitare spugna guasta e ‘sti graffiti incomprensibili ricoperti da millenari chewing gum, e buste di artificiose merendine, coriandoli di vecchi biglietti e il tanfo e lo sconforto di antiche sudate. Su, dimmi, dimmi pure se non avresti fatto lo stesso, se non ti sarebbe piaciuto tornare nell’artificial placenta, bello bello, da bravo feto, rannicchiato ginocchia contro il petto, cosy and warm.

Lo avresti fatto, eccome, se come lui avessi visto dal finestrino, unto e appannato, titani di fuoco divorarsi, morire e consumarsi in spaventosi vuoti densi di materia, in vuoti oscuri, infiniti e neri come occhi d’angelo, come aculei; e la lava scorrere nelle vene, ogni volta e ogni volta ricominciare, ricominciare tutto dall’apocalittico inizio.

 

Quante parole mi restano? Avrei dovuto imparare il greco, quelle sì che sono parole di qualità.

Non riesco nemmeno a capire se sono solo o se c’è qualcuno su questa merda di pullman.

 

Cosa?

Qualcosa sembra muoversi tre file più avanti…Cosa? Una testa! cos’altro? Umanoide?

Non lo so, non riesco a capire con questa luce ballerina. Comunque sarebbe il caso di chiedere a qualcuno dove va ‘sto pullman, tu lo sai? Cosa? e che ne so io? so esattamente quello che sai tu! Cosa? Niente! che devo sapere? niente!

Oh! non ti agitare, cerca almeno di capire se c’è un autista…Io non ho capito bene, ma non eri su un asteroide, un residuo di cometa? Sì, ma poi è scomparso…E il pullman, il pullman da dove esce?

E che ne so!? Ne so quanto te, io mi ci sono ritrovato qui! Beh io non ci sto capendo niente! Se è per questo nemmeno io, non riesco nemmeno più a distinguere le voci…

Ma come? Eppure se sei attento puoi notare che uso le maiuscole per differenziare le voci, sì lo so, si crea un po’ di confusione ma….

Ma cosa? questa cosa è illeggibile! Illeggibile? Fatta male direi e da riscrivere un po’, bisogna pur offrire qualche appiglio, un punto dove rilassarsi, un pianerottolo dove riprendere fiato, alcune cose sono da cambiare completamente, anche questo stratagemma delle maiuscole io lo rivedrei…

Ma cos’è sta roba, non si può vedere, è impubblicabile! Pretenzioso e artificioso, uno stantio e confuso vuoto, qualcosa di cui si poteva fare benissimo a meno.

Ohhhh! ma di cosa stiamo parlando?? sto impazzendo! ho capito! sono già impazzito e ora credo di essere su questo cazzo di pullman ma in realtà sono rinchiuso in una stanza ovattata e bianca con una bella camicia di forza che mi abbraccia e mi stringe… sì è così! devo essere impazzito… ecco cosa sono queste voci che mi scartavetrano il cranio… chissà com’è successo… è tutto così confuso…

È da rifare. Cosa? cosa?cosa????? È invendibile. Ci manca solo qualcuno che si mette a gridare: “Gelatiiiii! Bibiteeeee! Patatineee! Ah ah ah ah!

Bah! Io qui vi mollo, non reggo una stronzata di più!… È necessario.

 

È necessario

Non è stato sempre così, una volta c’erano polverose e vecchie mattonelle stinte con crepe verdeggianti d’erba e soffioni strabordanti di desideri. C’era un vecchio grembiule da cucina di un rosso slavato con minuscoli e radi fiorellini gialli, una scopa consumata con il manico di legno e c’era un pesco resinoso e dolce, e fameliche bocche di leone, una mimosa appesantita con al suo fianco un vecchio e altissimo ciliegio, e resistenze d’orto, un forno dei tempi antichi, e inesplorati confini, tesori sommersi.

Una volta c’era, o c’era una volta, qualcuno disposto a trasformare tutto questo, un super eroe, un cow boy, un esploratore. C’era una volta un cielo di piombo arroventato dal sole, e un vento affilato, e uno sguardo da uccello al di sopra delle valli, delle colline, fino ai vecchi giganti dormienti in lontananza.

C’era una voce che ti chiamava, una palla che rimbalzava pigra sull’asfalto consumato, un piccolo bastardino sorridente e scodinzolante. C’era un testimone di storie antiche e riti perduti, e nostalgie dolciastre. È stato tutto necessario, inevitabile.

Erano necessarie quelle tiepide notti d’agosto con brividi felini lungo la schiena, e il rincorrere lucciole da imprigionare con preveggenza in prigioni scintillanti.

Una volta c’era una certezza di tuniche ricamate e incensi, una volta c’erano giganti con risposte, verità nascoste in sussurri discreti, verità posticipate, e un pino altissimo sommerso dalla neve. Venti carichi di primavera e scorie di inverno, tutto inevitabile.

Profondi oceani di tempo blu racchiusi nel velo degli occhi a sommergerti, a cullarti, cortecce di mani per riposare, e un melograno al lato delle vecchie scale di pietra. Uno specchio che si riflette in un altro specchio, guarda, guarda lontano nel pozzo che spalanca le sue fauci, guarda gli ampi spazi vuoti ricolmi di te, della tua solitudine riflessa e moltiplicata in infiniti fantasmi di quello che era, di quello che è stato necessario.

Guarda dal finestrino la materia marcire nel putridume del tempo, sempre la stessa materia da quattordici miliardi di anni, e la farsa della vita, e la morte.

Una volta la luna splendeva nella notte.

 

 

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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