Kasparov vs Karpov: storia di una guerra ideologica
Una leggenda racconta che in un tempo lontano un re indù, di nome Iadava, vinse una grande battaglia per difendere il suo regno e che, per prevalere sul nemico, dovette compiere una strategia azzardata dall’esito esiziale, una manovra alternativa nella quale il suo caro figlio perse la vita. Da quel giorno il re non si diede più pace, si colpevolizzava atrocemente, interrogandosi sul modo in cui avrebbe potuto trionfare senza sacrificare il suo pupillo, la sua ragione di vita, il futuro sovrano: tutti i giorni rivedeva lo schema della battaglia, senza trovare alcuna soluzione, tormentandosi atrocemente, vessandosi l’anima. I sudditi cercavano di rallegrarlo con ogni espediente. Senza esito. Un giorno si presentò al palazzo un viandante brahmano, Lahur Sessa, che, per tentare di consolarlo e di placare i suoi sensi di colpa, gli propose di sperimentare un gioco che aveva inventato: gli scacchi. Il re si appassionò morbosamente, ne fu istantaneamente rapito, catturato. Quel gioco misterioso e ignoto curò il suo spirito, placò i suoi tormenti, lo illuminò. Difatti egli comprese – attuando una trascodificazione analogica con il suo vissuto – che il sacrificio di una pedina (anzi, di una Regina se si considera il valore dei pezzi) era stato un prezzo doloroso, ma necessario per salvaguardare l’impero ed evitare lo “scacco matto”, la vittima sacrificale per difendere migliaia di giovani imberbi e fanciulli innocenti, donne e bambini, per vincere la “partita” aprendo un varco imprevisto nelle file nemiche. Il re fu finalmente felice, e chiese a Lahur Sessa quale ricompensa egli volesse: ricchezze, un palazzo, una provincia o qualsiasi cosa. Avrebbe potuto avere tutto. Il monaco rifiutò con decisione. Ma il re insistette per giorni, finché Lahur Sessa cedette alle sue lusinghe, pronunciandosi con tali termini: «Tu mi darai un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta e così via». Il re rise incredulo, spiazzato da quella bizzarra richiesta, da quella ingenuità infantile. Egli accettò, beffardo. Il giorno dopo i matematici di corte si precipitarono a corte sconvolti e lo informarono del prodigio: per adempiere alla richiesta del monaco non sarebbero bastati i raccolti di tutto il regno per ottocento anni. L’Impero sarebbe andato in rovina! Il re non credeva alle sue orecchie. Lahur Sessa non solo lo aveva “guarito”, ma gli aveva anche insegnato che una richiesta apparentemente modesta può celare un’insidia volpina. In effetti, facendo i calcoli, il brahmano chiese 18.446.744.073.709.551.615 (18 trilioni 446 biliardi 744 bilioni 73 miliardi 709 milioni 551mila 615) chicchi di grano. Il monaco ritirò magnanimamente la richiesta, ma il sovrano decise di insignirlo per la sua saggezza: egli divenne il governatore di una delle province del regno (altre fonti però – tra cui la La variante di Lüneburg di Paulo Marensig – riportano invece la sua uccisione).
Che la leggenda sia vera o meno non ci è dato saperlo. Se gli scacchi siano un’invenzione di Dio o del demonio, lo discutevano già i papi nel medioevo, senza che nessuno sull’argomento sia arrivato a offrire una risposta di fede. Che siano invece lo sport più violento che esista, più truculento e pericoloso della boxe, più fulmineo nella sua risoluzione di una gara di cento metri piani e più massacrante nella sua durata di una maratona, non si sa esattamente chi l’abbia detto. Ma tutti sanno che è vero. Ognuno sa che attorno, dentro quelle sessantaquattro caselle bianche come la vita e nere come la morte c’è l’intero spettro delle passioni che l’essere umano prova nella sua esistenza, dall’estasi al terrore. L’estasi della vittoria, il terrore della sconfitta. E la partita è la vita. Perché gli scacchi sono un gioco complessissimo, dalle dinamiche variabili e infinite, dalla possibilità combinatoria immensa. Non è un caso che siano un tema così presente nell’arte di ogni tempo (esempio eccellente Le città invisibili di Calvino) perché esse racchiudono in sé una simbologia – a iniziare dai colori – intrinseca, multiforme e polimodale.
Il match più entusiasmante – o lo scontro titanico – della bimillenaria storia degli scacchi è iniziato 32 anni fa, nel settembre del 1984 a Mosca, durante la sfida decisiva per l’assegnazione del titolo mondiale. Da una parte del tavolo prendeva posto il «papa» degli scacchi, il campione difendente, il dogmatico delle sessantaquattro caselle, il «conservatore», il russo puro dalla tecnica perfetta e dal gioco posizionale, il metodico razionale, il savio: Anatolij Evgen’evic Karpov. L’uomo filosovietico, il “figlio” del Partito. Il trentatreenne Campione del mondo decennale (dal 1975 al 1985) per l’Urss era funzionario di lungo corso del Pcus particolarmente gradito al Cremlino: ebbe l’Ordine di Lenin appuntato sul petto da Breznev in persona. Dall’altra parte sedeva incurante e sorrideva sornione l’«anti-papa», l’eretico delle sessantaquattro caselle, il «rivoluzionario» geniale, l’azero dal talento infinito, il genio irruento, il pazzo: Garri Kimovic Kasparov. Il ventunenne destinato a diventare il giocatore più grande di tutti i tempi. Colui che aveva fatto del “sacrificio” machiavellico delle pedine – di qualsiasi valore o specie – il paradigma fondante del suo stile, colui che avrebbe scardinato il “fissismo” del gioco posizionale di matrice russa e che sarebbe divenuto campione del mondo dal 1985 al 1991 per l’Urss e poi fino al 2000 per la Russia. Uno squattrinato giovane ribelle che non accettava la disciplina del partito e che sarebbe diventato miliardario, l’icona politica del fronte anti-Putin. Da quella prima volta i duellanti si sono incontrati plurime volte e hanno iniziato a odiarsi di quel furore che solo gli scacchi sanno suscitare, entusiasmando un paese intero e i media, la popolazione e le fazioni politiche che intravedevano nei due prodigi non solo le incarnazioni di due stili contrapposti, ma di due ideologie contrastanti, di due modi opposti di intendere la vita, la politica e l’esistenza nel senso lato. Odio – e rispetto reciproco dell’avversario – che si è protratto nel tempo: i due colossi si sono affrontati in un rematch (dopo il ritiro dalle competizioni ufficiali di entrambi) a Valencia nel 2009. Ha vinto Kasparov, ancora. L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non esisteva più, la guerra fredda era finita, l’Armata Rossa che strategicamente veniva spostata dal Politburo sulla grande scacchiera del pianeta si era dissolta, era cambiato il modo stesso di combattere le guerre, era mutata l’economia, la società, la politica, da una parte e dall’altra del Muro, che pure era caduto. Ma i duellanti erano ancora lì, immobili e immutati, impietriti, in bianco e nero, come il Cavaliere e la Morte del meraviglioso Il Settimo Sigillo – film allegorico pluripremiato – di Bergman. La partita continuava e si protrae ancora oggi con la filiazione delle scuole scacchistiche di entrambi. La Sfida, per essere tale, è eterna. Kasparov e Karpov si sono incontrati 161 volte, di cui 144 per il titolo mondiale, per un numero infinito di ore di gioco. Kasparov ha vinto 24 partite, Karpov 20. Tutte le altre sono finite in parità.
La sfida tra i due titani della scacchiera, i due «K» che con la loro forza di gioco hanno rifondato quella particolare forma di filosofia matematica che sono gli scacchi, è durata 25 anni, tra match e riposi. Lo scontro del campionato mondiale del 1984 non è solo l’apice della loro rivalità, ma il simbolo del gioco degli scacchi in toto, della demoniaca, mefistofelica dimensione della sfida degli intelletti sulle 64 caselle.
L’incipit dell’incontro (avviatosi il 10 settembre) tradì le attese. Infatti Kasparov, a causa forse dell’inesperienza giovanile e della paura di perdere, attuò una tattica eccessivamente passiva e contraria alle sue caratteristiche di attaccante puro che lo avevano reso celebre; il corollario di tale “snaturamento” fu che Karpov conquistò quattro vittorie nelle prime nove partite. A quel punto, Garri cambiò strategia e iniziò a puntare tutto sulla patta, cercando di sfinire l’avversario. E ci riuscì. Furono giocate ben 17 patte consecutive prima che il campione in carica riuscisse ad imporsi nuovamente portandosi sul 5-0, ad un solo punto dal titolo. Kasparov, ormai convinto di non avere più nulla da perdere, iniziò ad esprimere un gioco marcatamente offensivo e decisamente a lui più congeniale, estrinsecando pienamente il suo genio, che lo portò a vincere la 32esima partita e dopo un’altra lunga sequenza di patte anche la 47esima e la 48esima, portandosi sul 5-3 e riaprendo di fatto l’incontro. Tuttavia accadde l’imprevedibile: l’8 febbraio 1985 il presidente della FIDE, il filippino Florencio Campomanes, convocò una conferenza stampa in cui comunicò la fine del match, tra lo stupore generale, senza vincitori né vinti. La battaglia si stava protraendo per mesi e mesi! L’eccessiva lunghezza della sfida stava creando innumerevoli problemi; dalla salute dei giocatori (Karpov aveva perso 10 kg, Kasparov 5 kg) alla paralisi di tutte le attività dello scacchismo mondiale (l’inizio del nuovo ciclo dei candidati fu rimandato più volte in attesa di conoscere l’esito dell’incontro). Campomanes decise quindi di sospendere il match, consentendo a Karpov di mantenere il titolo, e indire una nuova sfida da tenersi da lì a pochi mesi, con punteggio azzerato e reintroduzione della regola che prevedeva un limite di 24 partite (abolita nel 1975 su richiesta di Bobby Fischer). Karpov contestò la decisione in quanto riteneva di essere danneggiato dall’azzeramento del punteggio, vedendosi cancellare cinque vittorie contro tre. Ma le polemiche maggiori arrivarono da Kasparov, il quale senza mezzi termini accusò Karpov di fare lacrime di coccodrillo avendo in prima persona complottato con Campomanes la fine anticipata del match una volta resosi conto che rischiava seriamente di perdere. Garri portava a sostegno della sua tesi il fatto che da diverse partite ormai era lui ad avere l’iniziativa del gioco, trovando in Karpov sempre meno resistenza dovuta all’estrema stanchezza; il campione del resto aveva già dato dimostrazione di sopportare molto male la fatica di uno sforzo prolungato nel match del 1978 contro Korchnoi, in cui in vantaggio 5-2 subì la rimonta dello sfidante vincendo poi alla 32esima grazie solo ad un errore dell’avversario. Garri inoltre sosteneva di aver vinte le ultime due partite nettamente, senza alcuna fatica che se il match fosse continuato avrebbe potuto trionfare nelle tre partite mancanti agevolmente. Karpov in risposta si disse pronto a continuare il duello, ma Campomanes fu irremovibile: confermò la fine dell’incontro. Polemiche veementi si ingenerarono, La Russia fu sconvolta, scossa nelle profondità da un “semplice” match di scacchi che era stato capace di tramutarsi in qualcos’altro: una lotta feroce di idee, logorante nel corpo e nella mente.
Il campionato del mondo del 1984 vide non solo la comparsa sulla scena internazionale dell’astro Kasparov, ma materializzò dinanzi agli occhi degli spettatori la vera atmosfera – apparentemente “distesa e pacifica”- di un gioco in realtà violentissimo, perfido, diabolico. Un gioco “mitico” capace di prosciugare le forze vitali, di essere più estremo e snervante di ogni altro, di coinvolgere h24 la mente e il fisico della vittima praticante, connotandosi quasi di una natura metafisica, trascendentale, come avevano ben compreso – e temuto – già i papi nel Medioevo. I due rivali si sarebbero riaffrontati nel 1985 con regole più restrittive: vinse Kasparov, nettamente. Ma il gioco degli scacchi era cambiato: la guerra ideologica dei due titani – che avevano raggiunto un livello di gioco impensabile – aveva portato gli organi internazionali a mutare i regolamenti, per preservare la salute fisica e psicologica dei partecipanti e per evitare che le polemiche si potessero protrarre, ripercuotere disastrosamente nella sfera politica, coinvolgendo le masse, minando le certezze e il consenso del Regime.
Guido Scaravilli
Che articolo! Stupendo!
Grazie Lorenzo, troppo gentile! Ho messo troppi numeri però 🙂