Scrivere un libro e scrivere un film
Quante volte abbiamo sentito dire che il libro era meglio del film, magari da parte di fan arrabbiati perché non avevano ritrovato tutti i personaggi, o le stesse situazioni, o le atmosfere che li avevano catturati dalle pagine scritte?
Ebbene, per chi è familiare con entrambi i tipi di scrittura, sicuramente non affermo nulla di nuovo: se un film fosse completamente fedele al romanzo da cui è tratto, si tratterebbe quasi certamente di un pessimo film. Per prendere un esempio recente, ho trovato eccezionale la serie 11.22.63 prodotta da J. J. Abrams e basata sull’omonimo romanzo di Stephen King. E, guardate un po’, le uniche parti poco riuscite dell’adattamento per la televisione del libro sono quelle che lo rispecchiano più fedelmente.
Questo perché il libro e il cinema – o la TV – sfruttano due linguaggi del tutto differenti. Per fare un esempio semplice, la scrittura “classica” permette di spaziare nel tempo, con digressioni o semplici informazioni, o di esplorare la mente di un personaggio e i suoi pensieri e renderli chiari agli occhi del lettore. La scrittura per lo schermo non è così: il più delle volte bisognerà attenersi a comunicare fatti tangibili, relativi al qui e ora della scena, e per muoversi nel tempo o nei pensieri si avranno a disposizione forme e metafore visive, oltre al montaggio, e fattori come la musica, i colori, le espressioni e le azioni degli attori.
Non è un caso che molti dei film più riusciti siano tratti da romanzi o racconti brevi, che spesso rimangono anche meno conosciuti degli adattamenti cinematografici; un tipico esempio è Arancia Meccanica di Anthony Burgess, da cui furono tratti prima Vinyl di Andy Warhol, nel ’65, e nel ’71 il film di Kubrick che tutti conosciamo.
Restando con Stanley Kubrick e Stephen King, entrambi già citati, possiamo prendere il caso di Shining. L’adattamento cinematografico di Kubrick, riconosciuto universalmente come capolavoro della storia del cinema, ha dato vita a non pochi dibattiti. Lo stesso King rifiuta (tutt’oggi, a quanto pare) di riconoscere il valore del film, in quanto, a detta sua, Kubrick ha preso la sua storia e l’ha trasformata in qualcos’altro, privandola di senso e del suo intero scopo.
Proprio come per 11.22.63, ci troviamo davanti a due opere altrettanto valide, eppure diverse: due romanzi di King da una parte, una serie TV e un film dall’altra. Diversamente, invece, potremmo parlare di tanti altri film tratti da libri dello stesso autore (per esempio It), che hanno cercato di esservi più fedeli, ma che hanno fallito come prodotti a sé stanti.
A cosa va data importanza quando si scrive una sceneggiatura? Qual è l’equivalente delle parole per lo scrittore di film? Entrano in gioco fattori puramente visivi o uditivi, come la posizione di un oggetto o di un personaggio rispetto a un altro, i toni di colore e i ritmi di montaggio di una scena, le scelte effettuate per il sonoro del film, i colori degli abiti, le acconciature, l’uso della voce.
Vale – forse molto più qui che nella letteratura – il suggerimento di non dire qualcosa che si può mostrare: se in un libro c’è comunque bisogno di dire molto, visto che per mostrare tutto tramite azioni e dialoghi allungheremmo a dismisura qualsiasi storia, nel film è possibile rivelare tantissime informazioni con una semplice carrellata attraverso una stanza, che ci mostri, per esempio, l’ambiente in cui vive il protagonista (come fa Hitchcock nella prima sequenza di Rear Window).
In questo senso, scrivere un film è molto più simile a disegnare un fumetto: dopotutto si tratta di una serie di immagini che, viste una dopo l’altra, danno senso a una storia e a dei personaggi. Per quanto sia più intrigante e più immediato come linguaggio, tuttavia, il testo filmico non riuscirà mai a realizzare alcune delle “tecniche” proprie della lingua scritta – così come, in realtà, vale per ciascuna lingua rispetto alle altre. Sarebbe difficile da spiegare, perciò farò appello a qualcosa che è certamente chiaro a tutti: il semplice fatto che le parole possono esprimere, in teoria, tutto ciò che pensiamo. Ed è perciò normale che con esse si riesca a spiegare, in qualche modo, anche ciò che visivamente non siamo in grado di comunicare come vorremmo.
Un esempio che può essere utile è quello dello stream of consciousness, più volte replicato nel cinema, in chissà quanti modi diversi, ma mai davvero “puro” ed efficace come quello che ci trasmise Joyce. Ma potremmo semplicemente limitarci all’esplorazione dei pensieri di un personaggio, che in letteratura può essere infinita, mentre c’è un limite a ciò che si può mostrare con le immagini, e chiaramente lasciare lo stesso compito a un narratore o a un monologo/dialogo renderebbe il film tremendamente lungo e noioso nella maggior parte dei casi.
Questa è solo una piccola parentesi di quello che potrebbe essere un dibattito lunghissimo, ma dovrebbe aver gettato i primi dubbi in chi è solito lamentarsi per la scarsa fedeltà degli adattamenti televisivi/cinematografici ai racconti da cui sono tratti. Spesso una storia è pensata per l’uno o per l’altro linguaggio, ed è bene che rimanga nella forma che le appartiene. Altre storie invece sono aperte a molte interpretazioni o varianti, e in questo caso è sempre interessante comparare il libro e il film.
Francesco Audino
Completamente d’accordo con te. Linguaggi diversi che è inutile paragonare. Ottimo articolo, complimenti.