TUM(U)ORI.5. La fine

Lonesome[1]

 

Lonesome is I, wished I could die
Nobody cares for me
Lonesome is I, wished I could die
Nobody cares for me

It was a bright moon lighted night, the moon shining bright
When you and I made love
Your love wasn’t true, I’ll say onto you
I moaned like a turtle dove

Lonesome is I, wished I could die
Nobody cares for me
Lonesome is I, wished I could die
Nobody cares for me

I’m coming home, no more to roam
Darling I’m coming home
I’m coming home, no more to roam
Darling I’m coming home

Lonesome is I, wished I could die
Nobody cares for me
Lonesome is I, wished I could die
Nobody cares for me

It was a bright moon lighted night, the moon shining bright
When you and I made love
Your love wasn’t true, I’ll say onto you

I moaned like a turtle dove

Capolinea

Di chi sono queste mani? Le piccole pieghe sulle nocche sporgenti, i veli di pelle trasparente rialzati ai confini delle unghie macchiate da piccole chiazze nere come pozze di petrolio su acque limpide. Di chi sono?

VOCE ELETTRONICA: Ultima fermata. Capolinea.

Spingono sul sedile, premono, chiedono alle gambe di starle dietro, di chi sono queste gambe? Fasci di muscoli, nervi come rampicanti, tutto nascosto, seriamente persuasi di proseguire, di andare.

Di chi è questo sangue, vecchio e scuro come umida terra, perché ristagna?

Due scarpe sgangherate, strappate, a strappi avanzano trascinandosi dietro (a fatica) un intero corpo (umano).

La bocca mal dentata si apre, la lingua (spezzata) si piega, soffi d’aria modulati si annuvolano in agglomerati (poco) sensati, “a…arghi….arghivdccciii….arrivedecci…”

Gli occhi si annebbiano tra fuliggini di tempo e a stento registrano un cassone metallico scivolare via su pneumatici carbonizzati, in borbottii di gas a scarico. Rimane una strada sconnessa e un vuoto a rendere in carne, ossa, occhi annebbiati e calzini strappati. Di chi sono queste sinapsi, questi neuroni, che significa: “torna!”?

Questi nervi avvinghiati tra fibre e cavità d’ossa splendenti, il groviglio di articolazioni male oleate, pezzi male incastrati e mal gestiti da un corpo greve e grave.. Dov’è il confine tra questa epidermide, tra lo strato corneo disgiunto e l’aria, l’ossigeno, l’idrogeno? Dove finisce questo corpo?

Ne passano altri come te, prima uno, poi un altro, con maggiore frequenza, trascinano i loro pezzi marci in piccoli gruppi lasciandosi dietro scie di denti cariati e ciocche di capelli polverosi. Sono una folla ora, una gigantesca marea di carne putrefatta, con loro puoi tornare, è chiaro. Di chi sono queste ossa spezzate, di chi è questo didimo andato a male? Dove finisce questo corpo? Dove finisce questa marea? Dov’ è il confine tra me e te?

VOCE FUORI CAMPO: Qualcuno ha visto un mignolo?

Libero come una foglia

Quante parole rimangono, quali parole sono mie, quali parole in quale labirinto di viscere mi faranno tornare. Lo so bene, e lo sai anche tu che non si può andare a ritroso, che ogni parola aggiunta modifica quella precedente, che le parole invecchiano, sanno di polvere e di stantio.

Eppure poteva andare diversamente, come quella volta, ricordi? Quella volta che sei riuscito ad aggiustare le cose da bravo meccanico, brum brum e via, altre parole che sgassano e inquinano l’aria, ma intanto ci hai messo una pezza; come poteva andare diversamente?

E ora eccoci qui, beati, tra infiniti altri come te a marcire sulla strada, convinti di tornare. Vai, corri, torna alla prima pagina. Torna sulla soglia, stringi quella maniglia, diventerà polvere come lo sguardo di lei, di lei solo un’impressione vaga impressa sul divano abbandonato.

Povero illuso, fuggito oltre quel vuoto, nemmeno i segni nella tua carne sono più gli stessi, eppure i tubi sono ancora lì nella carne infetta, segni perché non ti colpisse chiunque ti avesse incontrato.

Andrà tutto bene vedrai, e poi ti ritrovi che pisciare è una conquista, che stare in piedi non è scontato, eppure ora sei qui in mezzo a quest’onda di carne umana putrefatta che sbatte e batte, e infuria, e picchia, e si gonfia, si ritira e ancora sbatte, sempre diversa, sempre uguale.

Sei sicuro di quello che hai visto, degli occhi come spilli neri, occhi come vortici, come un baratro, e una risata stonata a riecheggiare tra i vuoti. A volte rimani in un terrore immobile, chi ride? E solo il sospetto che quella risata storta possa essere la tua, ti stringe lo stomaco in una morsa gelida.

Sicuro amico! Pianeti e galassie…e anche me, ma non esclusivamente me e non nel modo in cui credo.

Sono libero come una foglia faccio quello che voglio!

Devo risalire, scalare questa montagna di parole, sì, devo tornare, calpesterò ogni gradino, ogni parola per tornare sulla soglia, su quella soglia dove c’è lui bloccato con una mano in alto impegnata a scuotersi in un saluto e con un’altra fissa sulla maniglia, che guarda lei e le dice:

Ti amo.

Gli occhi di lei sono ancora lì, indugiano, indulgenti e amorevoli, per un infinito battito di ciglio; non riescono a tornare su pagine cartacee (quelle pagine che lei annusa sempre prima di consumare e consumarsi), la sua voce intona un:

Ti amo anch’io.

Non c’è supplica, non è un ordine, non è una richiesta, è solo vita, quella vita, sì, proprio quella a cui stai pensando, non ti sbagli.

La scala è lunga, non chilometrica, ma lunga, non ci sono stelle a rischiarare il cammino; ogni passo è atroce, sto fisso con lo sguardo verso l’ultimo gradino, l’ultima parola; a ogni alzata sento il tempo che mi consuma dall’interno, non mi ferma il deteriorarsi delle ossa, non mi fermano i muscoli atrofizzati, ostinato, boccheggio ma avanzo. Ciuffi di capelli rimangono alle mie spalle, sputo denti piccoli e neri a ogni passo, lentamente mi svuoto, arrivo in cima ridotto a un mucchietto di ossa ricoperte appena da un sottile strato di pelle incartapecorita, soddisfatto, certo di aver lasciato dietro di me i residui delle mia esistenza, brandelli di vestiti, una scarpa corrosa, sangue secco sul corrimano, dolore, fatica; soddisfatto cerco quell’immagine immobile, ma gli occhi, gli occhi indulgenti e amorevoli si sono fatti duri come pietra, e spalancano davanti al mio terrore nuovi gorghi di scale, no, non ho scalato nulla, è tutto capovolto…sono rotolato giù?

Non è possibile, eppure di  nuovo la scala si erge davanti a me, con i miei resti spiaccicati su ogni gradino. Non mi resta che sciogliere quel poco che rimane di me nelle mie lacrime. Disfarmi in una pozzanghera, perdermi nel brontolio da morbo di Alzheimer dell’universo, confondermi nella bava delle nebulose, tra la puzza di rancido e piscio delle giganti rosse; la vita, la morte, si gonfiano, si espandono, eccessive, scoordinate, corrodono pianeti, galassie e pagine.

Un silenzio inodore, un’assenza, un punto, una frase che finisce. Nessuna memoria…un punto, una pace primordiale. Una frase finisce. Un’altra nasce.

Addio pace, la materia cerca la sua forma, la cerca e la trova, la stronza, la trova sempre; eccola lì, di nuovo, in quei due occhi neri e densi, come aculei fissi nell’anima, scarafaggi che rovistano tra le pieghe.

Sono ancora qui, tra i vuoti nascosti, tra una parola e l’altra, negli spazi senza significato, salto come un pagliaccio, mi dimeno scalmanato, sudato e ansante, e l’unica cosa che ottengo è di guardare me stesso impazzire in una cella ovattata di parole.

Profezia

Una gigantesca mano nel vuoto, con dita che sono maestose colonne di gas e polvere interstellare, si innalza titanica, sembra ghermire ammassi di dischi grondanti sangue, poi è sopra di me; e io fuori in spirito mi ritrovo in una pianura sommersa e inaridita da ossa splendenti. Un rumore ed ecco un movimento fra le ossa, che si accostano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente; sopra di esse i nervi, la carne cresce e la pelle ricopre, ma non c’è spirito in loro, sono vuoti.

Ecco, questo è il tuo popolo! Ora io farò delle mie parole come un fuoco sulla tua bocca, questo popolo sarà la legna che esso divorerà.

Tu, sì, proprio tu, prendi questo libro, prendilo e divoralo, sarà amaro alle tue viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele.

E vedrai che di nuovo vivranno i morti! Risorgeranno i nostri cadaveri, ci sveglieremo e malediremo, e la terra darà luce alle ombre. E poi ancora cadremo e ci disfaremo in polvere crudele, e ancora ci rialzeremo bestemmiando al trillo fastidioso della sveglia.

Le cose sono accadute, io d’improvviso ho agito e sono accadute. Ho udito e visto, come non testimoniare?

Ora ti faccio udire cose nuove e segrete che tu nemmeno sospetti.

Queste parole ora sono create e non da tempo, prima di oggi non potevi annunciare: io sapevo! No, tu non avevi udito queste parole, né sapute, né il tuo orecchio era aperto, e questo perché io sapevo, sì, sapevo che eri perfido, ma per il mio nome, il mio nome, rinvierò il mio sdegno per non annientarti. Se ti purifico lo faccio solo per me, per un mio riguardo, come potrei lasciare profanare il mio nome, sì, il mio nome! Non cederò ad altri la mia pena.

E generazione dopo generazione, fino alla fine dei tempi, il mio popolo crescerà a tuo discapito, il mio popolo ti seppellirà, e dal mio popolo di nuovo rinascerai, e sempre gonfierai il tuo popolo illudendoti di avere un nome, illudendoti di essere speciale.

Povero sciocco! Morirai infinite volte.

La terra sotterra.

Un grido

Un grido o l’eco di un grido; tra gli scogli l’urto salmastro del mare, e flutti ribollenti di bava bianca contro la terra, rocce acute, sporgenti come aculei.

Gli scogli si incidono sulla carne e in un alfabeto dimenticato di cicatrici racconteranno una storia indecifrabile. Granelli di sabbia impastano la bocca ormai seccata al sole, urla atroci di bambini… no, sono gabbiani.

Le gambe tremano sottili, stordite dalla luce, dall’esplosione di luce bianca. Le ombre lentamente delineano contorni, forme da decifrare.

È tutto straniero, in quante terre ancora bisogna vagare? Quante parole ancora? Dove spingersi ancora? Che posto è questo, bianco, tempestato di ombre nere come un mare di piccoli insetti, duri, neri, come aculei, tutti di forme diverse, a frangersi continuamente su questa distesa bianca, un’onda e ancora un’onda, una parola e ancora una parola, sempre uguale, sempre diversa; quanto ancora?

Un’ombra si avvicina.

LUI: A te che incontro per primo in questo paese, a te rivolgo il mio saluto, e tu non venire verso di me con animo avverso, ma salvami, quasi fossi un dio, ti supplico, ti stringo i ginocchi. rispondimi, che terra è mai questa? è abitata? è forse un’isola o una lingua di terra che si srotola nel mare?

OMBRA: Sei stolto straniero se arrivi qui da lontano e chiedi che terra è mai questa, non è oscuro il suo nome, è nota a molti: tra quanti verso l’aurora dimorano al sole e tra chi vive all’ombra sotto la sera. è aspra, impervia, piccola, ma non inaccessibile, possibile non riconosci la tua casa? la soglia che hai varcato per allontanarti, i mattoni rilucenti tra i riflessi del deserto, le finestre sonnecchianti, nulla riconosci?

Ed e subito una corsa di piombo, dove corro, come corro? La casa è ancora lì avvolta nel mio stupore, e in casa…  Saranno le radiazioni, la gravità, le ginocchia spezzate, o l’ennesima beffa, ma le gambe non vanno, sembra quasi che i miei piedi mettano radici.

Ogni passo è strappato alla terra con fatica estrema. Chissà se in casa c’è ancora lei; urlo in conati di vuoto e silenzio, niente. Come ho fatto a non riconoscere quei mattoni? Quella porta? E dietro la porta lei, sì lei.

L’ombra mi segue, si trascina con me, piano ruota intorno a me in un geometrico balletto, allungata, schiacciata, avvinghiata ai miei piedi, cresce, cresce, cresce, mangia tutto. Due piccole luci sopravvivono… lei! È ancora a casa, nell’abbraccio dell’ombra due finestre splendono, per non molto.

L’ombra dilegua, si stringe a me, torna a legarsi ai miei piedi, procediamo insieme, la casa si avvicina, fino a quando la mia ombra e la sua diventano una cosa sola. Dietro la porta, dietro la porta, dietro la porta ci sarà lei?

La maniglia sanguina nella stretta della mia mano.

Soglie

Il cuore sanguina nella stretta dei timori, la porta lentamente descrive un arco sul pavimento. Eccolo sulla soglia, bloccato con una mano in alto impegnata a tremare in un saluto senza senso, e con un’altra conficcata nella maniglia, eccolo che cerca, cerca di capire, di parlare. Ma ci sono forme  sconosciute da decifrare, ah le sue forme, e un figuro bloccato con le mani in saluto pronte a scattare sulla maniglia, e ci sono indugi amorevoli e indulgenti, ma per un battito di ciglio soltanto, poi di nuovo ombre e forme da annusare, da consumare, e il rimbombare di parole ormai incomprensibili e stanche, senza suppliche, senza ordini, consigli o avvertimenti. Rimane solo la vita, quella vita, si proprio quella a cui stai pensando, non ti sbagli.

FINE

[1] Mississippi John Hurt – Nobody Cares For Me.

 

 

 

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Redazione

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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