La vera bellezza di Room – film che è riuscito a guadagnarsi le sue poltroncine rosse alla Notte degli Oscar, portando a casa la statuetta per la miglior attrice protagonista Brie Larson – risiede nella quasi totale assenza di movimento, che, nonostante la candidatura a Miglior Film, ne fa un prodotto riservato a un pubblico di nicchia.
Room non offre allo spettatore la vista dell’azione, ma la sensazione del pensiero; tutto si svolge nella ripercussione psicologica che l’isolamento e la reclusione hanno generato nei due protagonisti. Un punto di vista non banale, se si considera che l’audience moderno è molto più bramoso di sangue e di violenza di quanto non lo sia mai stato prima. La violenza incensurata propinata dal cinema e dalle serie tv ha ormai superato il confine della catarsi, generando un crescendo di brutture fino ad arrivare alla desensibilizzazione dello spettatore. La crudezza del dolore, l’enfasi esasperata della sofferenza, sembrano non impressionare più nessuno e, anzi, pare che ci si debba aspettare sempre di peggio.
In tal senso, Room delude le aspettative del pubblico. Nel film – tratto dall’omonimo
La dimensione psicologica in cui si struttura tutto il film vuole ripercorrere l’orrore della reclusione cui è stata sottoposta Joy fin dall’età di diciassette anni. Vittima di un maniaco, che per tutta la durata del film è chiamato Old Nick, Joy è costretta a vivere per sette anni in una stanza, la Room del titolo, e a subire periodiche violenze sessuali, dalle quali nascerà Jack.
Questo mondo fuori dalla stanza che appare come un “altro pianeta”, non soltanto per Jack, ma anche ed inspiegabilmente per Joy. Per il bambino è come un gioco, un gioco spaventoso, certo, ma nel quale Jack non ha paura di avventurarsi. La giovane protagonista, invece, ibernata nella sua camera-cella, si disgela in un posto in cui i suoi genitori non sono più sposati; in cui i bambini scelgono volontariamente l’isolamento virtuale degli smartphone; in cui le ragazze che sono ritratte accanto a lei nelle foto dell’annuario scolastico sono diventate donne normali, a cui “non è successo niente”.
La predilezione claustrofobica del film per ambienti chiusi – la stanza, l’auto, l’ospedale, la casa dei genitori – denuncia un’attenzione registica alla vicenda privata dei due fragili protagonisti. Room non è la storia di una reclusione, non è il resoconto di una violenza perpetua inflitta ad un’adolescente, ma è la storia di una donna che ritrova sé stessa nonostante le pene che le sono state inflitte. È la storia di un riscatto – non di una vendetta – da chi le ha fatto del male. È una nuova prospettiva su un mondo che fino a sette anni prima Joy credeva fosse la normalità, e che ora invece si mostra in tutte le sue insidie, le sue trappole, la sua malvagità. Joy è costretta a scoprire quanto lei stessa sia stata egoista e artefice di una reclusione, quella di Jack, che avrebbe potuto dare in affidamento appena nato e che invece ha deciso di tenere con sé, non per proteggerlo come ha sempre creduto, ma per proteggere sé stessa.
Nessun dettaglio della vicenda di Joy e Jack è trascurato nel film, la prospettiva cambia continuamente, la tensione non abbandona mai lo spettatore, tenendolo incollato alla sua sedia, con il fiato perennemente sospeso.
Grazie a Room, l’irlandese Lenny Abrahamson non solo si merita la sua prima candidatura all’Oscar, ma realizza un piccolo, delicatissimo capolavoro.
Anna Fusari
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