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(In)traducibilità cinematografica e alterazioni di senso: il caso di Alice

«Alice nel paese delle meraviglie non è un libro per bambini: se i bambini sono capaci di lasciarsi affascinare dalla magia dei suoni avulsi dal senso, non sono poi tenuti a organizzare questi suoni d’avanscoperta in un ordine convenzionale di significati e ben presto queste felicissime eco si orbitano nel mondo immemore che non è possibile che non sia mai stato».

Ma non è nemmeno un libro per adulti. Quel che Aldo Busi intendeva dire, nella sua introduzione all’edizione Feltrinelli del libro di Lewis Carroll, è che Alice è una di quelle opere perfettamente godibili a ogni età, tanto dai grandi quanto dai piccini, ma le si possiede appieno soltanto quando le due fasi della vita camminano parallelamente. L’unico modo, citando Busi, sarebbe quello di leggerlo in compagnia: gli adulti insieme ai bambini, e i bambini insieme agli adulti, perché solo così possiamo aiutarci a vicenda a recuperare il senso che sfugge alla propria età.

E se esistesse anche un’altra strada? Per esempio, cimentarsi nelle invenzioni fonologiche di Alice prima di superare il confine dell’infanzia, e poi ripetere l’esperimento anche dopo, quando le competenze linguistiche maturate col tempo ci consentano ormai di guardare al di là del gioco fine a sé stesso. A patto che non ci dimentichiamo di tornare un po’ bambini, perché Alice ci chiede di non rinunciare a nessuna delle nostre voci, sia quella che ride «di chiacchiericci con lepri e stregatti», sia quella che non sa «se crederci o no».

Naturalmente, la trasposizione cinematografica di un’opera come questa non poteva che dare grossi problemi. Come portare sullo schermo la poesia concreta racchiusa nel testo, come tradurre in racconto filmico le particolarità dello stile di Carroll? Una serie di difficoltà che forse, un po’ spietatamente, si risolve soltanto tagliando fuori qualcosa. E qui sorge un’altra domanda: cosa bisogna fare fuori perché la storia di Alice diventi un film degno del suo romanzo?

Come ci è già capitato di discutere altrove («se un film fosse completamente fedele al romanzo da cui è tratto, si tratterebbe quasi certamente di un pessimo film», riporta un articolo apparso qui recentemente), cinema e letteratura si servono di due linguaggi differenti, e quando si parla di Alice è proprio il linguaggio l’ostacolo maggiore. Forse sono in pochi a sapere che le mitiche scarpette rosse indossate da Dorothy ne Il mago di Oz, nel libro di L. Frank Baum erano color argento. Nulla di strano, gli addetti ai lavori pensarono di sfruttare al massimo le possibilità offerte dal Technicolor, e un bel rosso rubino era quel che ci voleva. Tutto sommato, è un’inezia in confronto alle parti del romanzo che furono tagliate, intervenendo anche parecchio sul senso originale.

Al contrario, nella versione in live action del 2010 dell’opera di Carroll, sembra che la preoccupazione principale di Tim Burton sia stata quella di includere quanto più materiale possibile, piuttosto che scartare. Non soltanto, infatti, si attenne al testo del primo libro, ma attinse a piene mani anche da Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò: è il caso del Ciciarampa e della spada brigalace, che non compariranno che nel secondo viaggio di Alice. È pressappoco ciò che fece Walt Disney nella versione animata del 1951, mescolando alla trama del primo romanzo segmenti rubati al capitolo successivo. L’episodio dei fiori parlanti? Si trova in Attraverso lo specchio. La storiella del Tricheco e il Carpentiere? Anche quella viene da lì. Ma Walt Disney dovette anche rinunciare a qualche scena prevista nel progetto iniziale, per ragioni di ritmo e di durata, e chi abbia visto il film per la tv del 1999 ricorderà che la protagonista incontra una Duchessa ed un bambino tramutatosi in maiale.

I due registi si muovono però su due lunghezze d’onda differenti: se da un lato Burton ha provato a fondere insieme le due parti della storia, dall’altro non si è curato molto di conservarne lo spirito, e così una bambina persa in un mondo assurdo alla ricerca di una via d’uscita e di sé stessa è diventata un’adolescente dotata di armatura per combattere contro un mostro e una regina cattiva. Il cartone animato dimostra invece una ineguagliabile fedeltà al romanzo che non è soltanto aderenza al testo, ma è la volontà di rispettarne l’anima, quel senso di illogicità che regna nel Paese delle Meraviglie, di un viaggio che può giungere a termine soltanto dopo essersi smarriti del tutto. Soprattutto, Disney è riuscito in quella che era la vera impresa: riuscire a coniugare le due anime del romanzo, facendone un prodotto che parlasse agli adulti e ai bambini.

Sui risultati ottenuti con il sequel distribuito appena poche settimane fa sarebbe meglio sorvolare. Del secondo romanzo dell’autore inglese resta poco più che il titolo. Tolto lo specchio come via d’ingresso per l’altro mondo e la fugace apparizione di Humpty Dumpty, non resta più neanche la trama originale. Lewis Carroll non ha mai immaginato una corsa contro il tempo per salvare la famiglia del Cappellaio, semmai aveva in mente una partita a scacchi e un’altra serie di filastrocche e canzoni. Uno stravolgimento del genere suscita inevitabilmente una curiosità: perché?

Perché gli sceneggiatori hanno optato per una storia nuova di zecca piuttosto che per un’altra già collaudata? Non è che la risposta è che il materiale narrativo a disposizione non era sufficientemente appetibile? Forse il romanzo di Carroll, che rappresenta già un’impresa dal punto di vista della traduzione letteraria, non può essere tradotto in un film che sia godibile dal grande pubblico. Se consideriamo gli elementi già visti nella precedente pellicola e gli episodi già presenti nel cartone animato, nonché la necessità di tagliare quel che non può essere portato sullo schermo, va da sé che c’è bisogno di un’innovazione.

Prima ci siamo chiesti a cosa bisogna rinunciare della storia di Alice per farne un buon film, e questa domanda ci porta a un’altra: Attraverso lo specchio può davvero diventare un buon film? Perché se le parti da tagliare sono talmente tante da snaturare il romanzo, se un’opera letteraria non riesce a rendere adeguatamente nel suo corrispettivo cinematografico, viene meno la necessità di rappresentarla sul grande schermo. La risposta allora potrebbe essere quella di utilizzare la macchina da presa per qualcos’altro, e lasciar perdere le bambine che corrono dietro ai conigli bianchi.

Andrea Vitale

Andrea Vitale

Napoletano di nascita, correva l'anno 1990. Studia discipline umanistiche e poi inizia a lavorare nel cinema. Nel frattempo scrive, scrive, scrive sempre. Ama la musica e la nobile arte delle serie tv, ma il cinema è la sua prima passione. Qualunque cosa verrà in futuro, non abbandonerà la penna. Meglio se ci sia anche un film di mezzo.

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