È il 27 giugno. Siamo all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, nel cuore del VII arrondissement, quartiere elegantissimo della rive gauche. Si arriva un po’ di corsa per ripararsi da un cielo che, tanto per cambiare, minaccia pioggia. La sala si riempie. Questo pomeriggio Marco Missiroli incontra Annie Ernaux per dialogare sulla loro concezione della letteratura, le loro rispettive opere, la loro biografia. Entrano. Camicia celeste lui, occhi azzurri e trasparenti lei.
Annie Ernaux porta addosso i colori della sua Normandia natale. Ha più del doppio degli anni di lui. Una bocca che è una fessura. E le mani che si intrecciano mentre parla. Anche lei scrive di mattina. E fra poco più di una settimana vincerà il Premio Strega Europeo con Gli anni. Ha esordito nel 1974 e da allora ha pubblicato una ventina di titoli, circa la metà dei quali non sono (ancora) tradotti in italiano. Tutta la sua opera nasce dalla memoria, con temi ricorrenti o addirittura ossessivi: le umili origini, l’infanzia e l’adolescenza passate nel café-épicerie gestito dai genitori, i sentimenti contraddittori verso sua madre e suo padre, e poi lo strappo sociale, l’umiliazione e il desiderio di ascesa, e poi il salto dall’altra parte delle parole (dove le cose si dicono in un altro modo, dove non si urla, dove non si è volgari, dove non si parla in dialetto) di colei che si definisce una transfuga sociale. Una scrittura molto più che sincera: senza censura, quindi lacerante, a tratti spietata e che, in realtà, va oltre il dato autobiografico per portare un punto di vista sociologico sul tempo, le esperienze e i personaggi raccontati (la critica ha parlato di autosociobiografia). Una scrittura piana che va all’essenza. Parole che sono fotografie.
Qual è il trait d’union fra i due? Questo: pochi mesi fa, interrogato su chi fossero i suoi padri letterari, Marco Missiroli – che ne fa davvero una questione generazionale – disse di avere nonni letterari, fratelli letterari e non padri, ma una madre letteraria che si chiama Annie Ernaux.
Ecco, allora, che la direttrice dell’Istituto, Marina Valensise, avvia la conversazione chiedendo a lei di esprimersi su come abbia reinventato la letteratura francese attraverso il racconto dell’esperienza diretta, e chiedendo a lui qual è l’importanza che i libri della Ernaux hanno avuto e hanno ai suoi occhi.
Intanto, dietro di loro, è un acquazzone attraverso le grandi finestre che danno sul giardino. Sullo sfondo le gocce come punte di ghiaccio e il vento che piega gli alberi.
Lei risponde che la materia della sua scrittura le si è imposta, che non l’ha cercata, così come la realtà ha avuto spontaneamente la meglio sull’immaginazione nell’oscillare continuo fra intimo e collettivo dei suoi libri.
E lui dichiara che quando, nel 2014, fu pubblicato Il posto (nella traduzione di Lorenzo Flabbi per L’orma editore; l’originale francese è del 1983), tutti gli autori in Italia hanno iniziato a pensare alla prima persona singolare come motore della narrazione. Si dichiara anche preoccupato per quello che gli sta accadendo, ovvero che non crede più alla fiction, e che ultimamente legge solo biografie, autobiografie e “cose vere” (il che restringe notevolmente la materia che può diventare oggetto di narrazione).
Ora, naturalmente, la scoperta dell’Io e la narrazione in prima persona, così come il passaggio dalla prima persona singolare alla prima persona plurale (inteso come estensione sociologica ma anche come valore universale di un racconto privato), non sono un’invenzione né di ieri né di due giorni fa. Naturalmente basta aprire un manuale di storia della letteratura per vedere in che modo distinte correnti letterarie hanno parlato alla prima persona e quali possibilità narrative questa scrittura offra. Missiroli si dispiace che stia diventando una “moda”. Con il tempo la critica farà il suo mestiere e metterà tutto in prospettiva (probabilmente con le inevitabili semplificazioni) e ci dirà se questa tendenza di oggi rappresenta una continuità o una rottura, chi ha aderito e chi ha guardato da un’altra parte, che fattori storici e sociali possono averla determinata – le solite cose.
Ma il cuore della questione, adesso, non sta qui. Il cuore della questione sta precisamente al di fuori di questa prospettiva che la critica rivelerà. L’essenziale sta nell’avere di fronte, in questo momento, mentre fuori continua a piovere, due scrittori che ragionano su cosa li ha fatti alzare presto stamattina per scrivere una pagina. È una questione individuale. E torniamo, quindi, alla memoria e alla prima persona singolare come motore della narrazione. Sia detto anche che, quando si scrive, i concetti di fiction e di realtà sono più permeabili di quanto possa sembrare. Ma sta tutto qui. Sono concezioni diverse della letteratura, semplicemente. Una cosa è scrivere, come fanno in molti, perché la scrittura può essere un mestiere come un altro e fare un esercizio, magari riuscitissimo e del resto legittimo, di invenzione di una storia e di resa attraverso un bello stile; altra cosa è il bisogno di scrivere come unica possibilità di salvare ciò che è votato all’oblio, come tentativo di fissare il tempo, come unica consolazione, come unico modo possibile di esistere.
Chiaramente tutta l’opera della Ernaux è nata da questo bisogno. E Missiroli ci sta riflettendo.
È passata un’ora e mezzo. La sala si svuota. Si va via cercando di evitare le pozzanghere, pioviggina ancora.
E la chiamano estate…
Manuela Corigliano
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