Arte e intrattenimento elettronici. Sì, videogiochi.
Negli ultimi anni l’industria videoludica si è incredibilmente evoluta, di pari passo col progredire della tecnologia. Ma per molti, soprattutto adulti, i videogiochi sono ancora qualcosa di poco serio, qualcosa con cui perdere tempo e sicuramente non qualcosa di buono con cui crescere.
Diciamocelo: chi avrebbe scommesso sul cinema come arte tra il 1895 e il primo decennio del secolo scorso? Ebbene, faccio questo paragone poiché il videogioco ha molto in comune con il film, anche a un livello intuitivo: per esempio lo si vede su uno schermo, e agli occhi di chi non se ne intende può sembrare che chi gioca stia fermo per ore senza fare nulla di attivo.
La verità è che spesso si sminuisce il valore del videogioco proprio per il gioco. Parliamo infatti di intrattenimento, ma non è sempre intrattenimento che offrono un libro o, per non andare troppo lontano, un film in tv? Dopotutto una madre può gridare al figlio: “E staccati da quella tv!”, che stia guardando il Grande Fratello o che stia guardando Twin Peaks (e, per dire, la differenza è più o meno quella tra un Harmony e un classico della letteratura).
Ma partiamo dalla parola arte, spesso utilizzata a sproposito, eppure raramente tenuta in considerazione laddove servirebbe proprio. Pensate a come vi guarderebbe un adulto o un anziano se gli diceste che un videogioco può (può) essere una forma d’arte. Si renderebbero conto, loro, che qualcuno ha scritto la trama di quel gioco? Magari anche dei dialoghi e una sceneggiatura vera e propria? Sa che la musica di sottofondo non è nata dalla tv, ma è il lavoro di un compositore e di un’orchestra? E che dire di tutto il contenuto visivo che, non dovrebbe esserci neanche bisogno di dirlo, è stato prima disegnato e poi realizzato con programmi sofisticati?
E, certo, proprio come esistono prodotti audiovisivi e letterari di scarsissima qualità, così ce ne possono essere di videoludici, ma ciò non dovrebbe sminuire il lavoro che sta dietro alle grandi produzioni, in molte delle quali si trovano migliaia di citazioni ai capolavori del cinema o della letteratura, così come si usano pezzi di musica famosi.
Bene, stabilito che bisognerebbe trattare un Uncharted così come trattiamo un Indiana Jones, proviamo a seguire a grandi linee l’evoluzione di questa forma d’arte negli ultimi anni: col progredire della tecnologia del motion capture, innanzitutto, è sempre più frequente l’uso di attori veri per creare i modelli dei personaggi. L’esempio più incredibile è probabilmente Beyond: Two Souls, gioco sviluppato da Quantic Dream e creato da David Cage (ma non iniziamo a parlare di autorialità, che non finiremmo più, e comunque ci torneremo più avanti) che vede protagonisti, effettivamente, Ellen Page e Willem Dafoe.
I giochi di Cage sono particolarmente utili per la nostra ricerca anche per un altro motivo: sono tutti molto improntati sullo stile cinematografico, motivo per cui sono stati criticati da molti e amati da moltissimi altri. Già con Heavy Rain, Cage aveva dimostrato come, con la tecnologia di oggi, il confine tra cinema e videogioco può essere labilissimo. Heavy Rain è infatti un thriller a tutti gli effetti, e l’unica differenza con un film dello stesso genere sta nella durata, molto più elevata, e soprattutto nel potere che il giocatore ha di decidere le azioni, le battute e il successo/insuccesso dei personaggi, tutte cose che possono portare a quasi venti finali diversi.
Un esempio ancor più recente può essere quello di Death Stranding, un gioco di Hideo Kojima, famoso per aver creato la celeberrima saga di spionaggio di Metal Gear Solid. Anche per questo gioco, annunciato appena qualche settimana fa, Kojima si servirà di un attore, Norman Reedus, ma soprattutto punta chiaramente a creare un’opera d’arte. Per chi non conosce Kojima questo può non essere così scontato, ma basta un’occhiata al trailer del gioco per rendersene conto: il video si apre con una citazione di William Blake, continua con un paio di titoli di testa ed è accompagnato da una canzone, che più tardi sarà accreditata in un angolo, con tanto di titolo, autore, album e casa di registrazione. Infine appare il nome di Reedus, e solo ora il titolo del gioco, seguito da “A Hideo Kojima game” e una serie di credits del tutto simili a quelli di un film.
Ma ora che anche chi non ce l’aveva si è fatto un’idea delle storie magnifiche e dei personaggi complessi che popolano il mondo dei videogiochi, spostiamo la discussione su un punto più controverso. Se dovessimo dire cos’è che distingue l’intrattenimento elettronico da quello che qui chiameremo classico, sicuramente risponderemmo che è la possibilità del fruitore di partecipare attivamente (appunto, giocando). Ebbene, chiaramente è corretto, ma ha, in molti giochi, un’implicazione che può complicare il nostro discorso: il videogioco può essere fruito da più giocatori contemporaneamente. E non come al cinema, dove tutti guardiamo la stessa cosa, e tra me e un altro spettatore cambia solo leggermente l’angolazione da cui vedo lo schermo o se il tipo seduto vicino sgranocchia troppo forte i suoi pop corn o meno. No, il videogioco è qualcosa che spessissimo diventa competitivo. Ancor più dura della battaglia per far riconoscere il
videogioco come arte sembra essere quella di farlo riconoscere come sport, e negli ultimi anni si sono moltiplicati i campionati, i canali (online o addirittura su Sky Sport) e i team di gamer professionisti protagonisti del mondo degli eSports. Quel che interessa a noi in questa sede è, però, quanto siano da separare i due tipi di gioco (possiamo dire “narrativo” e “competitivo”) quando parliamo di cultura. Può sembrare ridicolo: certo, chi obietterebbe che giocare una partita di calcio può equivalere a farsi una cultura come leggere un romanzo?
La faccenda può essere più complicata nel mondo elettronico, dove anche nel momento in cui ci si affronta col solo scopo di vincere, ci si proietta in un mondo costruito, artificiale, che ha un level design, un art design, che ha musiche, suoni e via dicendo.
A quest’ultimo quesito non me la sento di dare una risposta, ma spero di aver instillato il dubbio in qualcuno di voi. Ma soprattutto spero di aver sensibilizzato tutti sull’argomento: ha senso sminuire un prodotto che a volte richiede più lavoro e sempre più spesso più creatività di un film solo perché fa parte di un’industria che alcuni percepiscono come per bambini?
Francesco Audino