Ieri sera mi è venuto in mente di guardarmi in quello specchio, e ti assicuro che era così tremendamente difficile che per poco non mi butto giù dal letto. Immagina di vedere te stesso: basta solo questo per restare agghiacciati una mezz’ora. In realtà quel tizio non sono io, all’inizio ho sentito chiaramente che non ero io. L’ho colto di sorpresa, di sbieco, e ho capito che non ero io.
L’inseguitore, [Julio Cortázar, Sur, 2016, p.58]
Cortázar non si limita a ispirarsi al jazzista, non trasforma soltanto lui e lo usa in una storia totalmente aliena. Tutti i personaggi del racconto – forse a eccezione della voce narrante – hanno un corrispettivo nella vita di Charlie Parker: Chan diventa Lan, Pree diventa Bee, e così via. Anche le modalità della morte, la sua dipendenza da sostanze stupefacenti e infine l’incisione di un pezzo tecnicamente imperfetto ma passato alla storia per la sua improvvisazione: Lover man (nel testo: Amorous).
Se la storia è abbastanza fedele – entro i limiti della finzione narrativa – in fin dei conti, della trama in sé importa poco. Cortázar mette in scena un teatrino riconoscibile nei suoi punti cardinali, ma i momenti più alti di questo racconto sono i dialoghi fra Johnny/Charlie e Bruno, il critico musicale che narra la storia.
Johnny Carter è probabilmente l’emblema del genio nell’arte. Eternamente insoddisfatto della propria resa, sempre alla ricerca di qualcos’altro, di un mondo al di là del mondo, raggiungibile – forse – proprio attraverso la sua arte. Questo è il nocciolo di tutto il racconto, il centro di gravità che innalza L’inseguitore a opera eccezionale. Johnny Carter è spezzato dalle sue dipendenze, ma non può farne a meno. È sì un drogato, ma non della droga in sé. Quella sostanza è soltanto un tramite, come lo è l’alcol, come lo è suonare a piedi nudi, dare fuoco a un materasso. Sono tutte strade che Johnny trova per cercare di arrivare dall’altra parte, di accedere a quella grandezza che solo quando suona riesce a percepire.
In un gioco di percezioni, il tempo è sempre presente. Il mondo che Johnny cerca di raggiungere segue leggi diverse, ed è compresso nel flusso temporale.
«Appena un minuto e mezzo secondo il tuo tempo, secondo il tempo di quella là», ha detto con rancore Johnny. «E anche secondo quello della metropolitana e del mio orologio, accidenti a loro. Ma allora, come ho fatto a starmene lì a pensare per un quarto d’ora, eh, Bruno? Come si può pensare per un quarto d’ora in un minuto e mezzo?»
L’inseguitore, [Julio Cortázar, Sur, 2016, p.28]
Ecco, allora, perché L’inseguitore è l’emblema del genio dell’arte. Il genio incompreso con un’unica grande fissa e il desiderio di raggiungerla a ogni costo. Johnny Carter è un Gatsby che guarda notte dopo notte alla luce verde dall’altra parte della baia, sul molo di Daisy, che fa di tutto per agguantarla. Non conosce rischi, non conosce prudenza. E Bruno, come Nick Carraway, non può far altro che guardare da esterno allo svolgersi della vicenda. Entrare, certo, interagire, ma rendersi infine conto di essere incapace di modificare nulla. Guardare lo spettacolo, sempre troppo breve, e andare avanti.
«Che mancano delle cose [nella biografia n.d.r], Bruno? Ah, sì, ti ho detto che mancavano delle cose. Guarda, non è solamente il vestito rosso di Lan. […] Non te la prendere, Bruno, non importa che tu ti sia dimenticato dimetterci tutta questa roba. Però, Bruno», e alza un dito che non trema, «è che ti sei dimenticato di metterci me».
L’inseguitore, [Julio Cortázar, Sur, 2016, p.89]
Maurizio Vicedomini
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