8½ e l’identità frammentata dell’uomo contemporaneo
8½ è un film di Federico Fellini del 1963, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero e divenuto negli anni a venire fonte d’ispirazione per generazioni di cineasti. È la storia di Guido Anselmi, affermato regista di quarantatré anni alle prese con il suo nuovo film, bloccato in un “ingorgo” esistenziale che lo costringe a un periodo di riposo presso una stazione termale. Tuttavia le continue richieste di produttori, tecnici e attori che soggiornano nello stesso centro non gli permettono di trovare la pace di cui ha bisogno e la mente, affollata di immagini confuse, ricordi dell’infanzia e visioni delle sequenze che vorrebbe realizzare, gli impedisce di fare ordine. Anche la vita sentimentale è confusa e l’unica speranza sembra risiedere nella misteriosa figura di una musa ispiratrice, simbolo di purezza, vestita di bianco come un’infermiera che serve l’acqua della fonte.
I dubbi e le incertezze, così, si palesano attraverso una crisi esistenziale che fa emergere nel protagonista la consapevolezza di quello smarrimento che si porta dentro da anni, ma che il lavoro e le esigenze della realtà quotidiana avevano in parte celato. Attorno a Guido, in un onirico affresco di immagini, si muove uno sciame di personaggi di contorno, esseri reali e creature della fantasia, fantasmi del passato e ossessioni del presente, i quali nella sequenza conclusiva si uniranno in un suggestivo girotondo, cui si aggiungerà con amorevole gratitudine e rinnovata accettazione lo stesso regista.
Senza dubbio il cinema del pluripremiato regista emiliano, durante la sua lunga carriera, ha saputo tradurre in immagini le nuove percezioni del nostro paese, evidenziandone conflitti e identità in mutamento, ma questa pellicola più di tutte le altre, dietro la suggestione di un racconto apparentemente fantastico, affronta in maniera paradigmatica il problema della crisi dell’uomo contemporaneo, il quale non può fare a meno di esplorare la propria confusione, il caos della propria mente abitata da fantasmi del passato, mostri dentro e fuori di lui, in un caleidoscopico e frammentato puzzle di sé che ha un pressante bisogno di unificazione. La confusione del protagonista è la stessa dell’uomo di oggi, il quale, caduti i modelli di comportamento e di valori superati dalla storia, si trova sommerso da una moltitudine di impulsi interiori e di sollecitazioni esterne contraddittorie e destabilizzanti.
Il senso di smarrimento del protagonista fa emergere una verità che al giorno d’oggi è più difficile da nascondere di quanto non lo fosse al principio dell’età moderna, e cioè che l’identità si rivela a noi unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto, come il traguardo di uno sforzo, qualcosa che è necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative. Guido Anselmi vorrebbe saper scegliere, individuare una strada nitida e chiara da poter percorrere in mezzo al caos, ma, volendo dire la verità, non può fare a meno di confrontarsi con tutte quelle parti del sé che lo assalgono da dentro e fuori. D’altronde in seguito alla rapida disgregazione delle strutture e delle istituzioni sociali tradizionali, il lavoro di costruzione dell’identità è diventato un compito che i singoli hanno dovuto realizzare attraverso la propria biografia.
Infatti nemmeno la Chiesa – descritta come una comunità ormai decadente che sa parlare esclusivamente di morte e sofferenza – riesce a fornire una risposta adeguata alla crisi del protagonista, mostrando come nell’ambiente costantemente instabile della modernità anche l’atteggiamento nei confronti del sacro cambi drasticamente, lasciando un’istituzione sociale antichissima come la religione del tutto inerme di fronte a tale condizione. E in questo panorama persino le relazioni sentimentali diventano instabili e poco rassicuranti. In 8½ il rapporto del protagonista con le donne, elemento fondamentale della sua vita, svela quella formidabile ambivalenza emersa durante l’epoca moderna e che è diventata una costante nella nostra attuale era della «modernità liquida», com’è stata definita dal sociologo Zygmunt Bauman: le relazioni interpersonali con tutti i loro corollari – amore, impegno, diritti e doveri reciprocamente riconosciuti – sono oggetti al tempo stesso di attrazione e apprensione, le desideriamo eppure ne abbiamo paura.
In questo scenario desolante la soluzione alla crisi individuale viene raggiunta per mezzo di un espediente narrativo di cui Fellini si serve; l’identità frammentata del protagonista, infatti, trova nel finale una sua ricomposizione attraverso l’autocoscienza, che riesce a trasformare il materiale “grezzo” depositato nella memoria in una storia. Il desiderio di Guido di mettere tutto dentro un film diventa una scelta d’amore verso sé stesso e verso tutti i suoi personaggi-fantasmi, trovando a ognuno il proprio posto nella “danza” della vita. È mostrandoci il peso determinante che il bisogno di raccontarsi in modo coerente, agli altri ma forse soprattutto a sé stessi, può svolgere nel processo di costruzione dell’identità che il cineasta riminese ci indica il percorso che conduce alla catarsi. L’eredità della pellicola sembra essere racchiusa nel raggiungimento di questa consapevolezza: affinché si possa costruire quell’insieme unitario che chiamiamo “sé”, non è sufficiente possedere dei ricordi, ma è necessario che tali ricordi formino una storia. Anche a costo di inventare o raccontare qualche bugia.
Peraltro l’opera testimonia la capacità del genio artistico non soltanto di saper cogliere con rara sensibilità i drammi e le contraddizioni del presente, ma soprattutto di saper gettare uno sguardo profetico sul futuro. A distanza di più di cinquant’anni dalla sua uscita nelle sale, 8½ è in grado ancora oggi di fornire un importante spunto di riflessione sulla condizione umana e sugli esiti, spesso disastrosi, ai quali lo scellerato cammino verso la post-modernità ci ha condotto.
Valerio Ferrara