Mi desto. Fin dal primo mattino siamo alla ricerca. Siamo pieni di brame, gridiamo. Non abbiamo quel che vogliamo[1]
Ci sono molti modi di leggere Benjamin, e anche molti motivi per farlo. Nek, per fortuna, non c’entra con nessuno di questi.
Si possono leggere i «Passages» di Parigi, Piccola storia della fotografia, i saggi sul cinema, quelli sula traduzione, quelli sulla fantasia, quelli sul teatro e la radio, quelli sul kitsch, il sogno e l’hashish e lo si può fare essendo fotografi, grafici, cineasti, scienziati dell’arte, filosofi morali, architetti, storici e qualsiasi altra cosa. Si può leggere Benjamin anche non essendo nulla, se non interessati a leggere Benjamin (cosa che vale un po’ sempre e un po’ per tutti). Lo scritto per cui, però, viene più spesso ricordato è il suo più famoso: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Nella prima versione dattiloscritta di questo testo, rimaneggiata in seguito dallo stesso Benjamin sotto i consigli piuttosto insistenti di Adorno, compare con una certa insistenza il concetto di aura. Un concetto che Benjamin lega qui inscindibilmente a quello di lontananza, intesa come distanza spaziale e temporale.
«La lontananza, sai, è come il vento: spegne i fuochi piccoli, ma accende quelli grandi…quelli grandi», cantava Modugno in un suo celeberrimo pezzo. È strano a dirsi, ma Walter Benjamin dice qualcosa di molto simile. Nel passo in cui dà vita alla sua più celebre definizione di aura, infatti, egli afferma:
Che cos’è, propriamente, l’aura? Un singolare intreccio di spazio e tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina.
L’aura è, cioè, quel quid che le cose possiedono quando le cogliamo distanti da noi nello spazio e in un preciso -e perciò unico- momento nel tempo. La lontananza spaziale e la puntualità temporale, che crea a sua volta le premesse di una lontananza, è ciò che conferisce ad un oggetto, un paesaggio, una persona o un’opera la sua aura. L’annullamento di questa lontananza, attraverso mezzi di riproduzione tecnica come la fotografia o il cinema, è invece ciò che ne determina la caduta.
Dice ancora Benjamin che è proprio questo distacco tra il soggetto percipiente e l’oggetto percepito ad attribuire a quest’ultimo la sua autenticità. Le montagne che vedo davanti a me, seduto all’ombra di un albero, sono autentiche sia perché, per quanto io possa avvicinarmi a loro, esse saranno sempre lontane da me, sia perché la mia contemplazione avviene in questo preciso momento: l’hic et nunc è ciò che rende le montagne autentiche. Una foto delle stesse montagne non avrà la loro stessa autenticità, e non l’avrà perché la mia riproduzione tecnica tramite macchina fotografica ha tolto loro l’aura. Questo perché, nel tentativo di annullare la mia lontananza da esse e di poterle vedere da casa, ogni mattina, per sempre, ho portato in qualche modo le montagne nella mia mano, ma le ho private di quella unicità che le contraddistingueva. Nel momento in cui ho potuto toccarle, cioè, le montagne sono diventate meno reali. Anche questo sembra un controsenso, perché è diametralmente opposto rispetto a ciò che comunemente si intende: nel senso comune, è (più) reale ciò che posso “toccare con mano”. Benjamin nota però come, per quanto riguarda la percezione, avvenga esattamente il contrario: ciò che ho provato durante la mia contemplazione puntuale e distante delle montagne è qualcosa di completamente diverso da ciò che posso provare ora, osservandone una fotografia. Non è né meglio né peggio, è solo diverso. Lo stesso vale per qualunque riproduzione di opere d’arte più propriamente dette. La tesi è che lo iato fisico esistente tra un’opera e il suo fruitore sia estremamente produttivo. La lontananza non è, come siamo soliti pensare, un ostacolo alla contemplazione o alla conoscenza, ma è anzi il terreno in cui esse innestano le radici delle loro condizioni di possibilità.
Lo stesso vale anche per la lontananza temporale. Una statua greca, scrive Benjamin, nasce in un determinato momento –il momento, cioè, in cui lo scultore termina di scolpirla dal marmo- e in quello stesso determinato momento, in un certo senso, muore. Muore perché da quel momento diventa impossibile modificarla. La figura che è stata impressa nel marmo nel V secolo a. C. non è più perfettibile, si ferma in quel preciso istante nel tempo. Un film, invece, dopo essere stato girato, può essere ritoccato in fase di montaggio per un numero infinito di volte. Questo significa, inevitabilmente, che il film ha, rispetto alla statua, il vantaggio di poter essere continuamente migliorato. E tuttavia significa anche, secondo Benjamin, che esso perde la possibilità, che la statua invece mantiene, di essere eterno. La determinatezza temporale di un’opera d’arte, quindi, la renderà lontana dal fruitore futuro, ma potenzialmente eterna.
Questi apparenti controsensi di Benjamin sono appunto questo: apparenti. In realtà, la prolificità della lontananza è comprovata in molti contesti, dalla storia, alle scienze, alla filosofia. Il merito di Benjamin, però, non sta solo nel fatto di essere stato tra i primi a porre l’accento sul valore positivo della lontananza. Egli ha il merito, anche, di aver portato questo concetto verso luoghi teorici difficilmente pensabili in precedenza. Dopo aver ripreso dalla scienza dell’arte i concetti di vedere ottico e vedere tattile, Benjamin prova che l’autenticità di un oggetto, che ha molto a che vedere con quella che definiremmo comunemente la sua “realtà”, è connessa non al tatto, ma alla vista. La tesi è, cioè, che la lontananza di cui la vista “soffre” rispetto al tatto non è affatto un ostacolo verso la comprensione di qualcosa di reale e che la «sempre più incontrastabile esigenza [dell’uomo] di impossessarsi dell’oggetto» ne svaluta l’autenticità.
È probabilmente oltre le intenzioni di Benjamin arrivare a conclusioni che si allontanino dalla «teoria materialistica dell’arte», che è l’intento dichiarato dell’opera. Tuttavia, le considerazioni sulla perdita dell’aura originale a causa della riproduzione tecnica e le definizioni stesse di aura presentate in questo scritto e in alcuni precedenti, possono essere spunti di riflessione interessanti. Nello specifico, potrebbero proporre una risposta ad una domanda piuttosto annosa: a che cosa serve l’arte?
Verso la fine del suo scritto, Benjamin scrive che:
Uno dei compiti principali dell’arte è stato da sempre quello di generare esigenze che al momento attuale non è ancora in grado di soddisfare.
L’arte ha il compito di generare esigenze che non è ancora in grado di soddisfare. Non è difficile vedere come questo significhi creare una distanza, uno scarto tra ciò che c’è (ed è vicino) e ciò che non c’è (ed è lontano), tra l’adesso e il dopo, tra ciò che il fruitore ha e ciò di cui ha bisogno. La creazione di questo scarto, secondo Benjamin, è il compito dell’arte. La creazione, cioè, di una insoddisfazione, presupposto necessario per l’ «apparizione unica di una lontananza».
A che cosa serva questa insoddisfazione, e perché dovrebbe essere utile auto-inserirsi in quel sistema di frustrazioni continue che (secondo la definizione di Benjamin) è l’arte, è una di quelle domande difficili cui nessuno sa rispondere in modo pienamente convincente e allo stesso tempo una di quelle talmente facili la cui risposta è così ovvia che nessuno spende tempo a organizzarla in parole. Perché l’uomo, attraverso l’arte, cerca da sempre di creare per se stesso un’insoddisfazione? La verità è che c’è un numero tendente all’infinito di risposte, per questa domanda. Ma una, che potrebbe racchiuderle tutte, è: perché deve. Ed è un dovere che non ha solo a che fare con l’arte, la cultura, la bellezza e i chiostri delle università di Lettere: è un dovere che ha a che fare con la scienza. E’ un dovere che ha a che fare con Darwin. Un fisico, un meccanico, un chimico potrebbero senza dubbio enumerare una serie di motivi per cui una macchina può muoversi da un punto A ad un punto B, ma nessuno di loro potrebbe negare che il fatto che esista uno spazio tra A e B sia la più necessaria delle condizioni dello spostamento. I motivi per cui l’homo erectus ha scoperto il fuoco sono due: il primo è che gli serviva, il secondo che non l’aveva. Questo vale per la maggior parte delle scoperte e delle invenzioni, anche se a volte è meno facile da vedere. E vale anche per qualunque tipo di progresso. La lontananza, ossia lo spazio vuoto tra ciò che ha e ciò che vuole, tra ciò che c’è e ciò che vorrebbe che ci fosse, tra ciò che vede e ciò che anela di toccare, è quel che spinge l’uomo a muoversi. In molti sensi. E non è mai una cosa sbagliata.
Bianca Bellucci
[1] E. BLOCH, Il principio speranza (Das Prinzip Hoffnung), Milano, 1994, p. 27. La frase costituisce, da sola, il primo capitolo del saggio, intitolato «Vuoto è l’inizio».
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