Di cosa parliamo quando parliamo di eroi?
Siamo abituati a pensare a un eroe come una figura strettamente positiva, ricca di qualità fisiche e soprattutto intellettuali superiori al normale. Non possiamo però limitare la faccenda in questo modo, poiché in letteratura siamo spesso davanti a un’identità ambigua che – per essere chiarita – va messa paradigmaticamente in un binomio.
Qual è l’altro termine del sistema?
Se prendiamo un eroe classico come Achille o Ettore e lo compariamo con uno Zeno Cosini o con il narratore omodiegetico di Tempo di uccidere di Flaiano, saremmo portati a dire che questi ultimi due, non solo nelle loro azioni, ma nelle loro essenze di esseri umani, sono quanto di più lontano possibile dal concetto positivo e archetipico di eroe. Achille ed Ettore appartengono alla morale dei signori: la loro positività è data dalla loro grande prestanza fisica, dal coraggio, dall’abnegazione, dalla volontà indomita. Sono positivi, insomma, perché sono epici. Se teniamo aperto il confronto, non c’è epicità in Zero Cosini o nel soldato di Flaiano. Sono entrambi, in modalità anche differenti, degli inetti. Sono personaggi incapaci di ottenere ciò che vogliono, di portare a termine con successo delle imprese – anche le più semplici o quotidiane, come smettere di fumare – e sono sminuiti ancor di più dalla fine delle loro vicende, dove la risoluzione in un nulla di fatto fa colare a picco l’importanza stessa di quella storia e del suo protagonista.
Possiamo, insomma dire – con attenzione ai termini utilizzati e alle loro accezioni attuali – che si tratta dell’opposto stesso dell’eroe. Sono anti-eroi.
Ma ancora una volta, andare a definire qualcosa in maniera assoluta può comportare dei rischi, e anche qui c’è necessità di creare in sistema di corrispondenze. D’altronde il termine utilizzato, anti-eroe, ha in sua natura una funziona oppositiva: è il contrario di qualcosa.
Sebbene possa sembrare evidente che i due elementi possano incolonnarsi in un paradigma binomiale e risolvere da sé la questione, ciò comporterebbe una serie di incongruenze e problematicità.
Il problema, come si può notare, è nell’errata contrapposizione fra eroe classico e (anti)eroe moderno, oltre alla concezione che una figura – per quanto archetipica come quella dell’eroe – possa restare cristallizzata nel tempo, impassibile al tipo di società, alla cultura, al benessere o alla fame, al tipo di lettore e al suo grado sociale e culturale. Questi elementi, raccolti in un’unica categoria che potremmo chiamare tempo, sono i contrappesi paradigmatici della figura dell’eroe. Ciò significa, per cominciare a rispondere alla domanda d’apertura, che l’eroe è prima di tutto un riferimento culturale fortemente legato all’epoca in cui individualmente nasce.
Quanto detto finora comporta la necessità di lavorare in sincronia – ovvero ragionando fra personaggi di uno stesso periodo storico – e rifiutare l’approccio diatopico che porterebbe a fraintendimenti come quello presentato poco su.
L’inetto sveviano senza far riferimento specifico a Zeno Cosini, a questo punto potrebbe non essere più l’anti-eroe, ma la figura eroica di una cultura e di una società diversa. Una società che porta dietro di sé la delusione per il mancato cambiamento dopo il risorgimento, che si trova senza identità. Un aspetto questo, colto da Pirandello. E ancora, il senso di inadeguatezza che serpeggia, e che rende protagonisti delle storie più importanti del primo ventennio del novecento dei perfetti incapaci, persone che si credono migliori di quanto non siano in realtà, e che nemmeno alla prova dei fatti si rendono davvero conto della propria essenziale pochezza.
Davanti a una figura simile, chi è l’antieroe se non l’uomo che ottiene ciò che vuole, l’uomo sicuro di sé che ottiene successi che il protagonista ritiene spettare a sé? Ne La coscienza di Zeno è esemplare il caso di Guido, ottimo violinista – contrapposto al pessimo Zeno – e futuro marito di Ada, prima scelta del protagonista.
Nel corso del novecento, però, assistiamo ad almeno due cambiamenti nella figura dell’eroe. Un primo caso è costituito – in larga parte – dall’esperienza neorealista. Mi riferisco in particolare al neorealismo in senso stretto, ovvero la fase che va per lo meno dal 1943 – inizio della resistenza – e attraversa autori come Fenoglio, Vittorini, Pavese, il primo Calvino. Il partigiano diventa il nuovo paradigma dell’eroe. In un primo momento, nella fase più memorialistica, c’è stato un ritorno forte alla figura positiva, eroica in senso classico. Nella fase seguente il partigiano è diventato nuovamente una figura di mezzo, dotato di capacità – a volte, di solito strettamente legate a un patriottismo o a un senso del dovere – ma spesso ricco di inettitudini. I giovani partigiani di Fenoglio in I ventitré giorni della città di Alba, ad esempio, possono rientrare in questa definizione. Sono personaggi sostanzialmente positivi, ma manca del tutto il respiro eroico in imprese che invece potrebbero esserlo. Sono ragazzi che si trovano lì quasi come se stessero solo giocando a fare gli adulti. Ancora più evidente è il caso di Pin, in Il sentiero dei nidi di ragno. Pin idealizza i partigiani, vuole essere come loro. Sono modelli positivi agli occhi del personaggio, mentre l’autore ci mette davanti al chiaroscuro della resistenza, abbattendone il respiro eroico strettamente positivo. È paradossale come le sfumature grigie presentate da Calvino impediscano che fra i partigiani emergano eroi e antieroi, e invece la stessa situazione – filtrata dagli occhi di Pin – faccia emergere due figure ben distinte: Dritto, il capo del distaccamento, ridotto ormai all’ombra di sé, e Cugino, il partigiano solitario che odia le donne. Rispettivamente Anti-eroe ed eroe di una visione del mondo partigiano, e forse della società intera degli “adulti”.
L’altra metamorfosi eroica dell’Italia del novecento è quella degli ultimi decenni. Allontanando per il suo forte eclettismo l’opera di Calvino successiva al Sentiero (si pensi al ritorno a una figura più classica ne I nostri antenati, all’eroe comico nelle Cosmicomiche, al riflessivo in Palomar e così via) la narrativa più recente sembra aver abbandonato o camuffato brillantemente la figura dell’eroe. Ci troviamo davanti a uomini comuni, vita familiare, lavoro. La spinta della letteratura contemporanea – forte anche dell’influsso americano – ha portato a una tensione verso l’immedesimazione del lettore. Una tensione che diviene sempre più forte, al punto da trasformare il personaggio letterario nell’esatto alter-ego del lettore stesso: l’uomo medio.
Naturalmente l’eroe al grado zero non nasce negli ultimi trent’anni e deriva certamente da prospettive realistiche che passano per Verga, Pirandello, Moravia. Ma la massificazione, la perdita di una forte identità di classe, lo sviluppo di tecnologie che permettono la condivisione generalizzata di esperienze conoscitive (si pensi alla diffusione della televisione, ma anche a internet, ai social network) hanno accentuato la presenza di un bagaglio culturale comune, in cui la letteratura ha dovuto inserirsi. Entro i margini di questa fascia media c’è il nuovo eroe annullato, un personaggio che permette la coesistenza al suo interno di eroe e anti-eroe, che si cancellano a vicenda nella creazione di un senso vasto e sfaccettato di uomo comune.
Già solo il novecento – seppur con piccoli passi nell’ottocento e nel nuovo millennio – si dimostra quindi fortemente diviso in figure eroiche molto diverse, e quindi di un binomio eroe-antieroe sincronico diversamente caratterizzato. E le figure eroiche qui elencate non esauriscono certo la poliedricità di questo secolo. D’altronde, da un’epoca che ha visto due guerre, un periodo di enorme benessere economico, uno di fame, un processo di rivoluzione tecnologica e decine di altri fattori determinanti, non potevamo aspettarci altro.
Maurizio Vicedomini
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