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Il potere curativo dell’arte secondo Alejandro Jodorowsky

Chi è Alejandro Jodorowsky? Un ottuagenario «delinquente sacro», come egli stesso si è più volte definito? O forse un «flambeur», qualcuno che rischia grosso, che azzarda, come ha affermato di recente in un’intervista? In effetti riuscire a delineare i contorni di una delle figure più poliedriche e carismatiche del panorama culturale contemporaneo non è affatto un’impresa comoda. Il suo percorso artistico, caratterizzato da una perenne fusione tra vita e arte, travalica le definizioni e le convenzioni: marionettista e mimo assistente di Marcel Marceau, fondatore del movimento-non-movimento “Panico” insieme a Fernando Arrabal e Roland Topor, attore e cineasta icona della controcultura anni Settanta nonché simbolo dei midnight movies, ideatore della serie fantascientifica a fumetti “L’Incal”, apprezzato autore letterario e rinomato conoscitore di arti esoteriche. La creatività straripante e spesso iperbolica insinuatasi in ogni ambito della sua produzione artistica è il frutto di un formidabile, e spesso travagliato, tragitto umano che dalla natale Tocopilla lo ha condotto dapprima nella capitale Santiago, dove è entrato in contatto con la generazione dei poeti cileni degli anni Cinquanta, e poi in Messico, dove è stato collaboratore della guaritrice Pachita e allievo del maestro zen Ejo Takata, ma soprattutto a Parigi – dove attualmente vive – città nella quale giunse con la convinzione di «salvare il Surrealismo».

Perché Jodorowsky è innanzitutto un surrealista, un grande estimatore della corrente di pensiero che fa capo agli studi sviluppati in Francia dallo scrittore André Breton. Ma è proprio dalla delusione maturata durante gli anni di frequentazione con il Movimento, troppo “imborghesito” e politicizzato, che è nato negli anni Sessanta il gruppo Panico – nome che evocava lo scatenamento bizzarro e inquietante del dio Pan e i rituali della furia creatrice a lui dedicati –, un collettivo di artisti che, attraverso performance teatrali scioccanti ispirate al “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud, intendeva provocare una cultura ormai paralizzata nelle secche del proprio stesso sapere accademico, e al contempo stimolare uno sguardo sul mondo tendente all’esplosione onirica dei sensi esteriori ed interiori. Il teatro cessava di essere una distrazione per diventare uno strumento di autoconoscenza.

Ben presto la creazione di opere scritte venne sostituita da quello che Jodorowsky definì «effimero panico», evento che accadeva una sola volta in uno spazio mal definito – secondo il dettato di Artaud – la cui missione era fare in modo che l’interprete interrompesse l’identificazione con il “personaggio” che quotidianamente indossa la maschera della cultura, della società, della famiglia e risvegliasse, tramite l’euforia della recitazione libera, la propria natura autentica. Tale esplorazione dell’enigma intimo segnò, quasi senza volerlo, l’inizio di un teatro terapeutico che avrebbe condotto più tardi alla fondazione della psicomagia.

Sperimentata per la prima volta durante le conferenze-happening (“Cabaret Mistico”) che si tenevano una volta alla settimana a Parigi, la “psicomagia” è una originale forma di terapia che si è andata perfezionando, a poco a poco, nel corso di molti anni, e che non solo trae ispirazione dalle innumerevoli esperienze maturate con i guaritori e gli sciamani del Centro-America, ma riprende anche gli atti apparentemente assurdi e provocatori dell’arte surrealista e dadaista. L’humus comune, infatti, è l’universo dei simboli e lo studio del loro significato archetipico, il quale a sua volta attinge dagli studi psicoanalitici freudiani e soprattutto junghiani. Tuttavia, mentre la psicologia e la psicoanalisi, in quanto discipline che adottano un approccio scientifico, analizzano il linguaggio dell’inconscio in forma razionale, la psicomagia intraprende il percorso inverso: il razionale apprende dal linguaggio dell’inconscio in modo tale da poter interpretare la vita come un sogno. E in modo tale da poter inscenare atti simbolici che, “parlando” direttamente all’inconscio, superino le censure e le resistenze della parte conscia e sciolgano i nodi dei nostri malesseri. Così, dopo un “test proiettivo” consistente nell’individuazione da parte del terapeuta dei bisogni del consultante e nella localizzazione della radice dei suoi problemi, viene fissato di comune accordo un programma di azione molto concreto.

Per citare alcuni esempi di atti psicomagici prescritti e realizzati, ad un uomo incapace di “tenere i piedi per terra” e di “avanzare” verso un’indipendenza economica venne consigliato di incollare due monete d’oro alle suole delle scarpe e passeggiare senza mai voltarsi indietro, affinché calpestasse oro tutto il giorno, mentre ad una donna che nutriva una profonda rabbia nei confronti della madre fu suggerito di acquistare due angurie, simbolo del seno materno, spaccarle a forza di pugni e disporne i pezzi in un sacco rosa carne confezionato a mano da gettare nella Senna. Questa innovativa terapia utilizza qualsiasi ingrediente, dalla danza alla poesia, dalla pittura alla scultura, dalla musica alla cucina, pur non intendendo imporsi come una delle tante forme di arte terapeutica – come ad esempio la musicoterapia, la psicopittura o altre tecniche utilizzate nell’ambito riabilitativo – bensì come un’autentica “terapia artistica”.

Tra l’altro, Jodorowsky ha sempre esecrato qualsiasi forma di espressione solipsistica che mira soltanto ad ingrossare l’ego e alimenta una visione del mondo parziale e autoreferenziale: «Non mi piace l’arte che serve solo a celebrare il suo esecutore, mi piace l’arte che serve per guarire» recita una sua celebre poesia. Attraverso il cinema, l’autore di visionarie pellicole di culto, come “El Topo” e “La montagna sacra”, ha cercato non solo di comunicare con gli altri, ma di mettere in moto un processo di trasformazione dell’Io, un profondo mutamento delle coscienze, instaurando un rapporto privilegiato con il pubblico; un pubblico attivo, che interviene esso stesso nella creazione e, anzi, ne è il vero soggetto finale. Nel corso di una conferenza tenuta a Cinecittà nel 2003 ha dichiarato:

Un cinema terapeutico deve mostrare modelli, metterci di fronte a problemi e poi però risolverli. Mostrare una coppia in crisi poiché uno dei due cambia e l’altro no. Quindi mostrarci che quello che non cambia è costretto a sottoporsi anch’esso ad una trasformazione per arrivare al livello raggiunto dall’altro. Esempi così, insomma, che descrivono la realizzazione sublime dell’essere umano.

In fondo il cinema, come l’arte tutta, cos’è se non una pratica magica attraverso la quale rappresentare il mondo – anche sottoforma di metafora – per poterlo interpretare e vivere meglio? L’arte ha la capacità di ridonare all’individuo la sua potenzialità infinita e, perciò, di offrirgli una cura. Ed è per questo che l’arte in grado di curare è l’unica forma di arte possibile. Parola di Alejandro Jodorowsky.

 Valerio Ferrara

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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Valerio Ferrara

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