Tutto si è perso, l’ho perso. È sparito da tempo il gonfiore all’occhio, ma resta il livido nell’anima e manca qualcosa, Mabel, manca qualcosa, ecco perché uno va camminando nella vita come un insetto zoppo, come una lucertola senza coda o qualcosa del genere.
– Storia d’amore senza parole, in Tutti i racconti. [Luis Sepùlveda, Guanda, 2012, p.49]
Luis Sepùlveda è probabilmente famoso ai più per la favola storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1996) o per il suo primo romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (1989), ma nel corso della sua lunga carriera di scrittore ha prodotto una vasta quantità di racconti, riuniti recentemente in Italia nel volume Tutti i racconti di Guanda.
Questo volume, attraversando l’intera opera di Sepùlveda, è capace di fornirci un quadro d’insieme sul lavoro letterario, sulle tematiche ricorrenti, sugli elementi portanti della narrativa dell’autore cileno.
Il tema che forse più di ogni altro riecheggia in queste pagine è la lotta ai regimi, la resistenza, la vita sotto questi governi, la violenza dell’uomo e della vita. E non ci si potrebbe aspettare di meno da un uomo che ha lottato contro i regimi nel suo paese e in tutta l’America latina, fino all’esilio, alla prigione. La letteratura, in questo senso, diviene non solo denuncia, ma anche uno spazio essenziale per la conservazione della memoria. Memoria è che al centro d moltissime narrazioni di questo volume, non solo come conservazione di un passato importante affinché non vada perduto, ma anche per il recupero di noi stessi, di ciò che siamo. Un’idea di letteratura, questa, che si mescola a un’idea di etica.
Qualche anno fa uscivo da una libreria di Parigi e venni avvicinato da un ragazzo che avrà avuto vent’anni. Mi disse che aveva letto Un nome da torero, forse uno dei miei romanzi dove ho messo più di me stesso. Mi chiese se avevo un minuto da dedicargli e dal momento che ce l’avevo siamo andati a prendere un caffè. Vedevo che era molto emozionato, non riusciva a parlare così l’ho spronato a farlo. Mi ha raccontato di essere il figlio di Perez, massimo dirigente del Mir, ucciso dalla dittatura. Mi ha raccontato dell’odio che provava per suo padre perché era sempre assente, perché non lo accompagnava alle partite di calcio, non lo andava a prendere a scuola come tutti i suoi compagni. Leggendo il mio libro aveva capito chi fosse stato realmente suo padre e per cosa si era battuto, per cosa era morto. E allora non solo aveva capito, ma lo aveva amato, rispettato e di lui era divenuto orgoglioso. Ho realizzato proprio in quel momento la carica etica profonda della letteratura, un dovere a cui non posso certo sottrarmi.
-Sepùlveda, da un’intervista di Elena Torre per Mangialibri, 2009
Nei suoi racconti si ha l’impressione che una porta resti sempre aperta. E non quella sul retro, o un balcone laterale. Molte storie narrano di amori che si riafferrano nel tempo per non agguantarsi mai, di passioni di una sola notte, di dolori per un’assenza. È la porta principale che nei racconti di Sepùlveda resta aperta. Così nel racconto da cui è tratta la citazione incipitaria, così in Incontro d’amore in un paese di guerra, in Vieni, voglio parlarti di Pilar Solòrzano, in Un incontro puntualmente mancato e nel meraviglioso Le cose dell’amore, giusto per citarne alcuni. Gli amori in Sepùlveda non sono mai compiuti, sono sempre una spinta, la tensione verso il loro compimento, ma non lo raggiungono mai. S’interrompono, vengono sviati, muoiono, e nonostante tutto la vita va avanti. E così quei personaggi che hanno della caratterizzazione la loro punta di diamante, sebbene in uno spazio così ristretto di parole. È l’autore stesso a metterli al centro, poiché dopo l’ideazione – confida in un’intervista – non comincia a scrivere finché non è conscio della maturità dei suoi personaggi.
Se il tono dei suoi racconti è sempre oscillante fra l’ironia e il dramma, a cavallo fra realismo e fantasticherie, una serie di racconti tiene alta la bandiera dell’umorismo. Si tratta, in particolare, dei racconti gialli o pseudo-tali come Hot line e L’angelo vendicatore. Il protagonista viene posto sempre in una condizione di estraneità alla vicenda, viene – letteralmente – lanciato in qualcosa di cui non comprende i mezzi o i fini, in cui non si trova a suo agio. E anche l’investigazione, che dovrebbe assumere carattere principale nella narrazione, diviene un pretesto, un modo per far scontrare personaggi che altrimenti non sarebbero venuti in contatto, uniti o avversari in una situazione in cui – probabilmente – nessuno voleva trovarsi.
Quel tipo mi aveva buttato giù dal letto alle sei del mattino senza nemmeno darmi il tempo di fare una doccia; dichiarando che si trattava di una questione di pochi minuti, mi aveva portato all’obitorio a vedere il cadavere di una bella sconosciuta e ora sosteneva che fra me e quella donna c’era un legame per via della nazionalità.[…]
[…]Volevo dirgli che secondo l’ultimo censimento, noi cileni eravamo tredici milioni, dodici in patria e un milione a errare in esilio, che c’erano cilene brune, bionde, rosse, calve, magre, grasse, scultoree, alte e piccolette, ma che non le conoscevo tutte con mio grande dispiacere […]–L’angelo vendicatore, in Tutti i racconti [Luis Sepùlveda, Guanda, 2012, p.372]
Dai racconti di una o due pagine a testi molto più corposi, dalle storie d’amore a quelle di guerra, Sepùlveda ha uno stile profondamente latino americano, una sintesi formidabile e personale fra il realismo magico di Marquez e le visioni individuali della realtà di Cortázar. E fra tutte le tipologie di narrazioni che ha sperimentato, Sepùlveda ha nel racconto la sua specialità, quella forma che è anche la più difficile: «il racconto» scrive Sepùlveda, «è narrazione pura»2.
Maurizio Vicedomini
1 B. Arpaia, Introduzione in Tutti i racconti, op. cit.
2Idem.
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