I tre Bon Iver: senso, fantasia e ragione.
Alle origini del fenomeno musicale Bon Iver vi è principalmente uno stereotipo: l’isolamento dell’artista, vissuto come necessità. Durante il gelido inverno del 2006, uno di quelli che solo aspettative personali disattese possono rendere ancor più freddi, lo sconosciuto cantante Justin Vernon scappa in una baita naturale nelle foreste del Wisconsin. Ha già superato un fallito tentativo di successo con la band locale Roots Rock, ma non la sua passione amorosa -di lì a poco celebre- bruciata troppo in fretta. Nel 2016 lo ritroviamo padrone della scena musicale indie, perfettamente a suo agio con la stampa, sperimentatore instancabile; eppure nelle vesti di oscuro ambasciatore di sé stesso, portatore di uno strano presagio: ̋ It might be over soon ̏ (Presto potrebbe essere finita).
Esattamente dieci anni di produzione cosciente: è la riemersione da un segreto ed immacolato intimismo, la crescita dell’artista ingenuo attraverso tre fasi, corrispondenti ai tre album notoriamente conosciuti della band, l’ultimo dei quali pubblicato solo qualche mese fa. La difficoltà nell’individuare i moventi e i “dietro le quinte” dell’esiguo bagaglio cantautoriale dei Bon Iver, quest’anno è stata offuscata da una consapevole strategia mediatica, tradottasi in un’iniziativa del tutto inaspettata per il suo pubblico; la sera del 2 Settembre, quattro settimane prima dell’uscita del disco ufficiale, Vernon ha scioccato tutti conferendo a 27 giornalisti la possibilità di ascoltare in anticipo le dieci tracce del nuovo 22 A Million. Il recente episodio getta sul timido amador, che ci eravamo abituati ad immaginare, una luce del tutta nuova e spinge a riconsiderare le varie tappe del suo percorso musicale. Senso, fantasia e ragione (espressioni che non hanno nulla a che vedere con i tre gradi della mente umana di Vico) costituiscono, in questo cammino, tre passaggi evidenti e direi non forzati. Costruiti di certo con una precisa volontà autobiografica, sono gli unici indizi espliciti che Vernon lascia trapelare dai suoi scritti spesso orfici, da tentennamenti e ambiguità compositive che abbiamo imparato ad accettare ormai.
For Emma, Forever Ago è l’esorcizzazione di una presenza/assenza, quella di Sara Emma Jensen, durante un periodo di quarantena durato circa tre mesi. Album immediato, catartico, puro e privo di qualsiasi forzatura intellettuale, se si esclude l’ostinato falsetto; eppure anche questa cifra dominante va vista alla luce di uno spontaneo e forte spirito di autodifesa, che spinge il cantante a celare la sua stessa voce. Non vi sono esiti edificanti, solo l’evidente sensismo naturale che tende a farsi coincidere con spinte dell’animo piuttosto evanescenti, tanto da valergli lo scomodo confronto con Neil Young. Nel passo successivo, quello di Bon Iver, Bon Iver, il ghiaccio delle parole passate inizia a sciogliersi, la musica si fa più coraggiosa, quasi indagatrice. Anche i testi restituiscono le stesse sensazioni: quasi tutte le tracce di questo album portano nomi di luoghi e si imprimono fortemente nella memoria del pubblico, perché sono legate a spazi definiti e non più solo a fievoli impressioni. Vernon ha appena cominciato con la sua emersione dalla fredda cascina nella foresta, ma intende mantenere un incedere lento e discreto. Nel viaggio offerto da questo secondo album rimane un’unica e affezionata costante: il falsetto. Inoltre lungo il progressivo scorrere dei dieci brani, la dimensione corale acquista sempre maggior preminenza, contribuendo al graduale annullamento dell’isolamento che aveva contraddistinto la prima esperienza musicale.
La particolarità delle creazioni dei Bon Iver è questo continuo divenire, un movimento di cui non è facile fornire una precisa direzione o verso (se ascendente o discendente), ma che è sempre palpabile. Nella prima fase la sua musica cattura impressioni e suggestioni primitive, provenienti dallo scontro dei sensi con il mondo naturale; nella seconda fase, invece, si fa consapevole e cerca a sua volta consapevolezze ricollegandosi a precise entità geografiche: esplora il mondo e su di esso trova chiare prove di sé.
Di tutt’altra natura è 22 a Million. A partire da un singolo loop percussivo realizzato da BJ Burton su una drum machine, vengono sviluppati ben 10 brani. La prima impressione che questo restituisce è quella di un album profondamente fisico, del tutto privo delle evanescenze precedenti. Le spinte vitali sono sostituite da continue inflessioni artificiali: suoni stridenti, rumori post-rock, improvvisi cambi di registro musicale, e una voce finalmente libera dalla maschera rassicurante del falsetto; per ottenere questi risultati Vernon appende al chiodo la sua chitarra e si affida alla corporeità di sintetizzatori, tastiere e sassofoni; inoltre la coralità viene quasi del tutto sostituita dalle numerose variazioni dei vocoder. Stavolta il sonoro è sommerso dalla vastità caotica dell’universo, da influssi tra i più disparati, senza che riesca a gestirli.
Il grande peccato della critica è quello di aver attribuito a queste nuove dieci tracce, la sola volontà di annullare il sentimentalismo passato, in favore di un adeguamento al razionalismo. Di certo siamo di fronte all’abolizione dello stile dolce e cadenzato delle origini, ma questa scelta formale non ha nulla a che fare con una teorizzata e presunta scomparsa della spiritualità più accesa. L’ossessione per le serie numeriche e per la simbologia religiosa e pagana (fuorviante in tal senso la stessa copertina di 22 a Million) non corrisponde all’esplicito rifiuto di quella ricerca interiore iniziata con For Emma, Forever Ago, ma rappresenta piuttosto una nuova possibilità di indagine intellettuale, un tipo di espressione più razionale che tiene conto di tutte le conoscenze e le esperienze acquisite negli anni di silenzio della band (viaggi e collaborazioni di natura più disparata).
Del resto come recita Moon Water: “Now I’m more/ Than I’m when we started” (Adesso sono qualcosa di più di quando abbiamo iniziato).
Francesca Ciaramella